Nora, leziosa moglie dell’avvocato Torvald Helmer, prepara l’albero di Natale nel salotto tutto rosa, come color confetto sono i suoi vestiti e la sua visione del mondo. Con un battito di mani ha il mondo ai suoi piedi (fa scendere dall’altro perfino gli addobbi natalizi), il marito premuroso nel soddisfarne i desideri e il dottor Rank che ne subisce il fascino. Il lato oscuro è il procuratore Krogstad che la ricatta per un debito contratto falsificando la firma del padre, se il marito non recede dall’intenzione di licenziarlo dalla banca. L’intercessione di Nora nulla può, tutto viene svelato, il marito reagirà sdegnato, poi tenterà di riallacciare i fili del rapporto perché “crescere insieme è bello”. Nora rifiuta, scaraventandolo in una crisi di identità.
La tradizione teatrale di Casa di bambola ha privilegiato l’analisi della condizione femminile nell’epoca vittoriana, presentando Nora come una protofemminista, antesignana della presa di coscienza di un nuovo ruolo sociale e familiare, che si sottrae alla soggezione maschile per affermare se stessa.
A distanza di 140 anni è ancora possibile una rilettura del testo di Ibsen che metta in evidenza un inedito profilo del rapporto di coppia? Andrée Ruth Shammah ha affrontato la traduzione, l’adattamento e la regia scavando tra le righe delle pagine ibseniane alla ricerca di una diversa prospettiva, rinunciando all’interpretazione aprioristica ormai consolidata di una moglie trattata come una bambola dal marito insopportabile e autoritario, focalizzandola invece come una sottile manipolatrice che, con bugie e moine, piega gli uomini ai propri capricci di moglie astuta e donna seduttiva ma tenace e determinata oltre l’apparente leggerezza dell’ “allodoletta” che trova tutto “meraviglioso”, cui la leggiadria di Marina Rocco conferisce un appropriato physique du rôle, supportato da una gradevole volubilità.
La regista scardina il profondo della psiche, rivelando la molteplicità dell’animo umano e le fragilità di ciascuno, ponendo l’accento sul concetto inedito che Nora non è trattata come una bambola, ma bamboleggia per sedurre e ottenere ciò che vuole, e Torvald, anziché un borghese ipocrita, è protettivo e remissivo. Per sottolineare questa visione, ha affidato ad un unico attore, Filippo Timi, i tre ruoli, come le diverse facce dell’atteggiamento maschile verso le donne: il bonario Torvald, l’irrisolto Rank e l’opportunista Krogstad. Della loro solitudine emotiva Timi si fa carico, inarrestabile nell’entrare e uscire dalla scena nei diversi ruoli, finché nel finale si libera a vista dei panni di Rank per porsi come Helmer. La sua recitazione è sorniona, pervasa dalla sottile ironia delle battute che alludono all’impossibilità della compresenza del marito e del ricattatore, fino alla sorprendente tarantella finale. Tenendo a freno la sua tipica esuberanza attoriale, affronta l’esperienza con misura, delineando tre tipi umani convincenti, con velocità da trasformista. Mariella Valentini interpreta con rassicurante benevolenza la signora Linde, la bambinaia en travesti di Andrea Soffiantini ascolta molto e parla per aforismi. Un’atmosfera di attesa e mistero aleggia sulla vicenda in cui anche i personaggi minori sono determinanti, essendoci sempre qualcuno che spia e origlia dietro le porte e la cameriera e il fattorino vivono una genuina e sincera storia d’amore.
Non un manifesto femminista, quindi, ma un dramma borghese che si snoda tra desideri e inganni in una casa di bambola impregnata dalle bugie di una donna incapace di assumersi le responsabilità di un matrimonio ma capacissima nel far credere di essere trascurata.
La scenografia di Gianmaurizio Fercioni, dalle tenue tonalità rosa comprese pareti e porte, è potenziata dai costumi nella stessa nuance di Fabio Zambernardi, le luci di Gigi Saccomandi e le musiche di Michele Tadini. La porta d’ingresso, spesso lasciata aperta, fa intravedere una fitta nevicata che, nell’ultima scena cadrà su tutti, dopo il crollo metaforico del tetto della casa con lo strappo di Nora al pacifico ménage familiare.