di Arthur Miller
traduzione Masolino D’Amico
scene Maurizio Balò
costumi Gianluca Sbicca, luci Pasquale Mari
regia Massimo Popolizio
direzione artistica Umberto Orsini
con Umberto Orsini, Massimo Popolizio, Alvia Reale, Elia Schilton
produzione Compagnia Orsini
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“Qui si parla di un passato ingombrante che rende il presente immobile. Si parla di sacrificio, di senso di colpa, di speranze e illusioni. Si parla di noi, di una società post-crisi in crisi. Notevole, no? Soprattutto se pensiamo che il testo ha debuttato nel 1968”.
Guardo Max confidando in un suo commento esaustivo. Niente. Il suo sguardo brancola nel vuoto.
“Allora?”
Lo incalzo.
“Bé…è stato bello. A me è piaciuto. Andiamo a mangiare? ”
La sua sinteticità cozza drasticamente con la tendenza piuttosto opposta del drammaturgo di stasera, Arthur Miller, che di cose da dire ne aveva e pure parecchie. Lo spettacolo in questione è “Il PREZZO”, portato in scena nelle piazza italiane tre anni fa dalla compagnia Orsini e finalmente giunto anche nell’umida terra veneziana.
La vicenda parla di Victor (interpretato magistralmente da quell’artista meraviglioso che è Massimo Popolizio, di cui sono segretamente innamorata da anni) un poliziotto, vicino alla pensione, che, su insistenza della moglie, decide di vendere la mobilia dei genitori ormai deceduti. Si presenta un mercante ebreo interessanto all’acquisto: un signore un po’ particolare, stravagante (mi perdoni signor Orsini, il sua talento è senza età) ma gentile e con lui Victor instaura un’intesa, quasi padre-figlio. Proprio quando stanno per siglare l’accordo piomba nella stanza Walter, fratello di Victor, medico di successo, con un garage pieno di macchine, ricorda la moglie di Victor, Esther. Sotto lo sguardo muto dei mobili coperti, si succedono svelamenti di vicende familiari passate, quelle vicende che hanno portato i personaggi nella condizione di stabile insoddisfazione in cui sono ora. Vengono messi in luce i ricordi di una famiglia in disgrazia, di un padre impoltronato, di una madre che vomita e di scelte fatte a un prezzo troppo alto.
“Non è un po’ troppo alto secondo te?”
Mi chiede Max scorrendo il dito sulla lista delle pizze.
“Veniamo qui da anni, Max, il prezzo è sempre quello”.
Si ferma perplesso. Guarda fuori la gente che cammina, come preso da una visione e dice:
“Forse è una cosa relativa. Il prezzo, dico. Quando ero alle medie, spendere 20 euro per una maglia era impensabile per me, quella era la mia paghetta settimanale! Mentre per Seba, un mio amico dell’epoca, era come prendersi un pacchetto di gomme quella cifra. Poi, quando i suoi hanno avuto problemi ed è dovuto andare a lavorare, ha capito quanto fosse difficile farsi su quei 20 euro e se li è messi via. Poi ha aperto un negozio di magliette. Alla fine, è solo una questione di punti di vista”.
Come al cinema 3D, mentre parlava, mi passavano davanti le immagini dello spettacolo e d’improvviso tutto mi sembra più chiaro. Pur essendo questo testo molto complesso e spesso difficile all’ascolto, la regia, che è degli stessi Popolizio e Orsini, ha saputo sapientemente darci i segnali necessari per cogliere tutti i punti di vista dei personaggi, di conseguenza passavamo dal tenere per uno, al comprendere l’altro, in modo così fluido che neanche ce ne rendevamo conto. La prima parte più ironica è stata giocata su continui cambi ritmi e i movimenti dei personaggi (la camminata diventa racconto). La seconda invece è stata una rivelazione: il ritmo ha lasciato spazio all’intensità e noi ci siamo completamente affidati a quelle quattro anime che per due ore sono andate oltre gli odiosi colpi di tosse e le caramelle scartate e ci hanno tenuti lì. E non è cosa facile farlo così: pochi sono stati i cambi luci, nessuna pausa. L’attore al centro della scena.
Vorrei chiedere a loro “a che prezzo” fare questo, dopo un’esperienza così lunga, dopo carriere così brillanti. “A che prezzo” fare uno spettacolo così faticoso, così intenso, così sudato? Ma forse, la risposta, la so. E li ringrazio per questo.
“Che pensi?”
Mi chiede Max.
“Niente. Mi sa che prendo questa pizza qua. E alla malora la miseria!”