Simone Cristicchi continua il suo viaggio teatrale alla ricerca di storie rimaste incagliate nella memoria, che non hanno mai avuto la dovuta popolarità. Il cantante e attore romano si concentra ormai da un paio d’anni sulla vicenda di David Lazzaretti, barrocciaio di Arcidosso, nella provincia grossetana, vissuto nella seconda metà dell’Ottocento, la cui vita fu segnata da misteriose visioni. Prima un frate, che poi si rivela come San Pietro, poi la Madonna gli annunciano che Dio gli vuole affidare una missione e lo spingono a parlarne col Papa. Questi, però, non gli concede un colloquio e David si rifugia in una vita da eremita. Intanto le sue predicazioni iniziano a fare proseliti e tra riti spirituali, arresti ed esili volontari, nel 1878 la sua comunità conta più di 5000 persone, uomini e donne che, nella frastornata Italia neounitaria, vedono in lui l’unica fonte di verità e di autentica fede religiosa. David Lazzaretti diventa presto il “Cristo dell’Amiata”, predicatore di valori egualitari, socialisti e addirittura europeisti che incantano centinaia di discepoli. La comunità spontanea vive in autonomia, con questi valori, sul Monte Labbro, a un’estremità del cono vulcanico dell’Amiata; ma la notizia inizia a diffondersi in Maremma, poi in Toscana, fino ad arrivare ai piani alti della curia e dello Stato, a cui il rivoluzionario di Arcidosso non va tanto a genio.
L’epilogo è quello che ci si può immaginare, se si pensa che un personaggio tanto avanti con i tempi come David Lazzaretti sia ignoto ai più. Cristicchi, con la regia di Antonio Calenda, racconta la sua storia in un monologo di un’ora e mezzo in cui non sbaglia un accento, ricreando da solo le voci di tutti i personaggi, con l’aiuto del suo barroccio – opera mirabile di Domenico Franchi, curatore anche dei costumi – che all’occorrenza diventa vulcano, portone, seggio papale. Lo spettacolo è arricchito dalle musiche originali che Cristicchi ha scritto insieme a Valter Sivilotti e dalla leggerezza con cui l’attore guida il pubblico immagine dopo immagine, battuta dopo battuta, con una semplicità di paese e quel poco di umorismo che smorza i toni. Un’interpretazione straordinaria, un racconto che smuove qualcosa dentro, accarezza l’anima. Cristicchi indossa sul palco del Puccini, come su tutti quelli che ha calcato, Sanremo non escluso, il prestigio della sua umiltà, che, se si vuole, lo accomuna un po’ a Lazzaretti. Non lontano dai riflettori, ma sotto quelli giusti, porta a giro per l’Italia l’arte sacra del cantastorie, senza mai cadere nell’eccesso, e con un lavoro attento e premuroso alle spalle, che traspare sul palco.
Da parte di Cristicchi non c’è assoluzione e non c’è condanna per Lazzaretti. Non c’è spazio per un giudizio. C’è però l’opportunità, se non la necessità, di una riflessione. Viene spontaneo chiedersi cosa ci sia di diverso tra il Cristo dell’Amiata e quello più storicamente noto, quanto disti l’Amiata dalla Palestina. Viene spontaneo, e forse provocatorio, rispondersi che nel mezzo ci sono i citati Gramsci e don Bosco, ma anche l’Inquisizione e le Crociate. Sorge il dubbio – e mai parola fu tanto bistrattata – che nel mezzo ci sia anche una struttura clericale ai tempi del Lazzaretti già radicata e a quelli di Gesù Cristo ancora da formarsi. Il dubbio, insomma, d’aver trattato il secondo figlio di Dio come un Barabba qualunque. Nel dubbio, minuti di applausi e ovazione per Cristicchi, costretto infine a scendere dal palco e a guidare il pubblico verso l’uscita della sala.