Gabriele Lavia torna a parlare al suo pubblico attraverso il linguaggio e le tematiche del grande drammaturgo Luigi Pirandello e lo fa scegliendo un atto unico che lo scrittore siciliano trasse da una propria novella, “La morte addosso” del 1918. Ne “L’uomo dal fiore in bocca. …E non solo”, andato in scena al Teatro Arena del Sole di Bologna, Lavia, per la quarta volta, affronta il premio Nobel in una messinscena in cui interseca la drammaturgia che dà il titolo allo spettacolo con altre novelle come il titolo stesso preannuncia.
Uno spettacolo, dunque, dove s’indaga nel cuore della poetica pirandelliana distillandone i temi più ricorrenti, a partire proprio dalla morte “L’uomo è metafisico perché sa di dover morire”, senza dimenticare però la meditazione sul senso della vita, il complesso e complicato rapporto tra uomo e donna, l’inconsistenza dell’Io che suscita smarrimento e dolore e il senso di solitudine che ne consegue quando l’uomo prende coscienza della sua vacuità.
In scena ci sono due personaggi, il protagonista, interpretato da Gabriele Lavia è ormai prossimo alla morte per via di un epitelioma, un fiore sulla bocca con il quale la morte lo ha marchiato, come preavviso che presto tornerà di nuovo, e stavolta per portarlo via con lei. Seduto nella sala d’attesa di una stazione, con fare meditativo, assorto nei suoi pensieri, il protagonista incontra qui l’altro personaggio, interpretato da Michele Demaria, che lui stesso chiamerà “Uomo pacifico”, un signore pieno di pacchi, pacchetti e pacchettini che ha perso il treno per tornare da sua moglie e le sue figlie, un archetipo che Pirandello utilizza per tracciare le linee dell’uomo qualunque, perso nella sua mediocrità e nella banalità della vita quotidiana. L’uomo dal fiore in bocca cerca di stimolare l’uomo pacifico attraverso una serie di riflessioni filosofiche e, partendo da Shopenhauer, cerca di provocare e stimolare lo sconosciuto con considerazioni sull’esistenza ma anche con una cospicua dose di ironia e cinismo, capisaldi della penna pirandelliana.
La scenografia pensata da Alessandro Camera è imponente e maestosa, ed è stata realizzata nei laboratori del Teatro della Pergola, riaperti appositamente per questa produzione. Siamo in una vecchia stazione ferroviaria del Sud Italia, dietro le vetrate si intravede un binario dal quale emergerà indistintamente una figura di donna, la moglie dell’uomo dal fiore in bocca che è li ad attenderlo, con sembianze talmente sinistre che viene da chiedersi se non sia la morte stessa. La stazione, questo non-luogo per eccellenza porta il racconto in una sorta di dimensione atemporale, in una dimensione di estraniamento che ben si addice a tutti i concetti che nel testo vengono esposte e, l’orologio che troneggia in alto, senza lancette, ne è il simbolo supremo.