Napoli si respira, da subito. Ancor prima che l’azione cominci. Le scelte scenografiche trasportano immediatamente lo spettatore in medias res: la cornice del palcoscenico è infatti adornata con numeri della smorfia napoletana, sui quali spiccano, in colore rosso, tanti “cornicielli”, mentre lo spazio centrale del sipario abbassato è occupato da schedine del lotto, disposte tra impalpabili nuvole in maniera disordinata, sulle quali si può leggere a grandi lettere “Napoli”. Non si poteva scegliere di giocare con rimandi più chiari; la smorfia è infatti conosciuta anche come “Libro dei sogni”, in virtù del fatto che chi la consulta cerca una connessione tra avvenimenti, reali o sognati, e i numeri. Il “corniciello” è invece il portafortuna per eccellenza del popolo napoletano, al quale è assegnato un significato molto più profondo che ad un qualsiasi altro amuleto: si crede infatti che abbia il potere di allontanare anche le peggiori sciagure ed è quindi un accessorio indispensabile per chiunque creda nella volubilità della sorte. Due elementi, dunque, di impatto visivo immediato in chi entra in sala, legati visceralmente all’antica tradizione partenopea, dal forte valore simbolico e che bene introducono il pubblico nell’atmosfera visionaria che presto si paleserà sul palcoscenico. La storia, infatti, è costituita da un intrecciarsi di vicende concrete e sogni rivelatori ed è alimentata da precise credenze e assurde connessioni tra il mondo reale e quello ultraterreno.
Protagonista di “Non ti pago” è Ferdinando Quagliuolo, il proprietario di un “banco lotto” ereditato dal padre, che tenta la sorte con accanimento giocando costantemente numeri che però non si dimostrano mai essere vincenti. Direttamente proporzionale alla sua tremenda sfortuna è, invece, l’incredibile successo del suo impiegato Mario Bertolini, che riesce ad indovinare sempre i numeri esatti grazie ai suoi sogni rivelatori. La sfacciata buona sorte che accompagna di continuo quest’ultimo finisce per renderlo inviso al suo titolare, soprattutto dopo un avvenimento che diventerà il fulcro centrale della: la vincita di una cospicua somma di denaro da parte di Bertolini, ottenuta giocando una quaterna comunicatagli in sogno dal defunto padre di Quagliuolo.
Ferdinando, livido di invidia, non riesce ad accettare la spudorata fortuna del suo dipendente e sostiene che tutto sia frutto di un equivoco: in realtà il padre intendeva dare a lui i numeri vincenti e, a riprova di ciò, sta il fatto che l’anima del defunto aveva scelto di presentarsi nel suo vecchio appartamento e aveva chiamato la persona a cui si era rivolto “piccirì” (“piccolino”, in dialetto napoletano). Certo, quindi, che il denaro spetti a lui e spinto da una irremovibile “sete di giustizia”, il proprietario del botteghino del lotto si rifiuta di pagare Bertolini. È, d’altronde, convinto a tal punto di avere ragione che si rivolge ad un avvocato per essere rappresentato in tribunale non valutando quanto le cause giuridiche abbiano bisogno di prove ed elementi concreti. Ferdinando Quagliuolo è infatti un uomo che si affida completamente ai segni, alle visioni, ai sogni, ai movimenti notturni delle nuvole per interpretare la vita e quindi anche la realtà; è a tal punto dentro un meccanismo insano di giudizio che finisce per credere che in tribunale un avvocato possa dichiarare “Signor giudice possiamo mai supporre la malafede di un defunto?”. Ovviamente assurdità del genere scatenano ilarità in chi, con lui sul palco, impersona personaggi più pragmatici, ma soprattutto diventano un meraviglioso mezzo per una trascinante comicità nel pubblico.
L’insana superstizione sottesa a tutta la commedia avrà modo di svilupparsi nei modi più impensabili e farà scaturire situazioni folli finendo per dare in qualche modo ragione al protagonista della pièce, che, finalmente gonfio di soddisfazione, si decide a concedere la mano della figlia a Mario Bertolini, sebbene con un ultimo avvertimento che dimostrerà nuovamente la fermezza delle sue credenze e la peculiarità del suo carattere. E così, ancora una volta, si riderà.
La scelta di insistere sulla scaramanzia, di cui il personaggio di Ferdinando è solo l’esempio più lampante, dimostra anche una componente fondamentale di questa commedia: l’impossibilità di accettare serenamente e consapevolmente il rischio e la bellezza di essere artefici del proprio destino. La buona sorte, la sfortuna, il disegno del destino sono da sempre convinzioni che, anche solo in modo inconscio, agiscono nella psicologia di molti e finiscono per guidare le loro azioni. La scrittura di Eduardo De Filippo è riuscita, con la solita e sorprendente forza espressiva, a dimostrarlo attraverso situazioni comiche. È qui la genialità; è questo il motivo per cui “Non ti pago” è uno dei testi che hanno avuto maggiore fortuna scenica ed è per questo che ancora oggi continua ad essere una delle commedie più rappresentate.
Il mondo è in scena; un piccolo pezzo di mondo pronto a far sorridere ma che spinge anche a riflettere e che riesce a toccare le giuste corde negli spettatori anche per merito di una fantastica compagnia di attori guidata da Gianfelice Imparato, che veste i panni di Ferdinando Quagliuolo. Accanto a lui Carolina Rosi interpreta Concetta, moglie di Ferdinando, una donna concreta e ribelle, che non riesce a concepire le stranezze del marito e che rappresenta la parte razionale della coppia. Molti gli altri, bravi interpreti che contribuiscono a dare colore, a caratterizzare in maniera originale i personaggi e, quindi, a rendere ancor più spassosa la vicenda.
Si ride, e tanto. Tra riti scaramantici, anatemi, notturne visioni e battute di spirito è un autentico piacere lasciarsi trasportare in un mondo altro, lontano, eppure spesso così presente.
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Non ti pago
di Eduardo De Filippo
regia Luca De Filippo
con (in ordine di apparizione) Carolina Rosi, Viola Forestiero, Nicola Di Pinto, Federica Altamura, Andrea Cioffi, Gianfelice Imparato, Massimo De Matteo, Carmen Annibale, Paola Fulciniti, Gianni Cannavacciuolo, Giovanni Allocca
scene Gianmaurizio Fercioni
costumi Silvia Polidori
musiche Nicola Piovani
luci Stefano Stacchini
produzione Compagnia di Teatro di Luca De Filippo