Un repertorio pressoché infinito per regalare due ore di spettacolo e puro intrattenimento, divertente, spensierato e ironico. Oblivion: The Human jukebox, andato in scena al Teatro Duse di Bologna, è costruito interamente sulla capacità e bravura dei cinque performer in scena che, con le loro bellissime voci, con la capacità d’improvvisazione e con le accattivanti performance a cappella, riescono a riprodurre, in modo del tutto originale e irriverente, i brani più celebri della canzone italiana e internazionale.
Si parte con tutte le canzoni vincitrici di Sanremo. Un mash-up di cinque minuti in cui tutti i brani saliti sul podio della più celebre manifestazione musicale del nostro paese, in ordine cronologico dal 1951 ad oggi, diventano un’unica grande canzone e, in una esibizione di grande qualità interamente a cappella, si intrecciano si fondono e si fanno il verso: un modo inedito e originale per raccontare in poco tempo la storia della musica, non sempre brillante, dell’italica penisola.
Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda, Fabio Vagnarelli, gli Oblivion appunto, proseguono con quello che è il fulcro di tutto lo spettacolo, pescando a caso i bigliettini, scritti dal pubblico, con le preferenze dei cantanti. Un atto impertinente nei confronti degli spettatori: i cinque artisti vogliono mettere alla prova la limitata, a loro avviso, fantasia degli astanti, in un continuo gioco di sbeffeggiamenti carico di irriverenza e sarcasmo. Ciò che ne viene fuori è un flusso di note e ritmi infinito, che prende vita davanti agli occhi del pubblico, che non è solo fruitore ma partecipa attivamente, in più occasioni. Con questi ingredienti ogni sera si assiste a un’esperienza folle e mai ripetibile. Nessuno spettacolo sarà uguale al precedente.
Sicuramente i grandi protagonisti della serata sono la musica e le parole che, con estrema leggerezza, bravura e ironia vengono smembrate, frazionate per poi essere ricomposte, inglobate e accorpate in modo unico e originale, dando loro nuove sfumature e caricando, sia le parole che la musica, di una vena canzonatoria e beffarda. Il risultato è una ventata di allegria ed euforia, il pubblico è catturato dalla bravura dei cinque artisti che eccellono non solo in qualità canore e musicali ma anche nella vena comica.
Tra i momenti più belli della serata ci sono sicuramente la performance delle due donne Graziana Borciani, Francesca Folloni che interpretano Mia Martini facendo l’una la “vocalist” che canta solo le vocali della canzone e l’altra la “consonant” ossia colei che intona le consonanti e infine le due voci si alternano per permettere a vocali e consonanti di congiungersi in un momento molto divertente che evidenzia la bravura, la coordinazione e il feeling delle due artiste in scena.
Anche le parole hanno il loro peso, ne è la prova il divertentissimo momento delle “parole mono-vocaliche”: ogni attore impersonifica una vocale e deve parlare usando solo quella. La “A” e la “E” si sfidano a duello più avvantaggiate, rispetto alle altre, nel numeroso ventaglio di parole che le vede come protagoniste. Il problema maggiore è sicuramente dell’attrice che interpreta la “U”, vocale molto complessa per fare un discorso mono-vocalico, esordisce con cucù, a cui seguono una serie di parole brevi, difficili da intessere in un senso compiuto. La “I” è poetica e solenne, declama più che parlare: “vi vidi, intimiditi, nichilisti; vinsi triplici inchini!”. La “O” invece è concreta, corporea, materiale: “o porco mondo, mondo corrotto, soffro, soffoco, sono solo!” Un bellissimo gioco che oltre all’alta percentuale di ironia e sagacia che contiene, ci ricorda anche quanto è ricca e bella la nostra lingua.
Sulla scena, dei cubi colorati fungono da portaoggetti dentro i quali gli artisti pescano il materiale per le loro esibizioni: parrucche, soprabiti e decorazioni varie utili per interpretare dei personaggi, oppure vengono spostati, mossi in base alle esigenze sceniche e delle performance, usati come sgabelli o come un Juke boxe. Il disegno dei cubi è ripreso dai quadri di Piet Mondrian che dimostrano una complessità che smentisce la loro apparente semplicità. Proprio come lo spettacolo degli Oblivion.