Questa rubrica non vuol rappresentare una panoramica di quanto esce sugli schermi nl mese, né una selezione del meglio, ma semplicemente l’indicazione di opere che presentano motivi d’interesse.
Vorrebbe inoltre essere d’aiuto a chi volendo recarsi al cinema cerca un film adatto ai suoi gusti o allo stato d’animo del momento: non sempre infatti si ha voglia di problematiche sociali o esistenziali, c’è anche il momento in cui andare al cinema significa, giustamente, fuggire dal quotidiano per distendere la mente con due risate (ridere è un diritto) o fuggire nel sogno identificandosi con gli ‘eroi’ dello schermo o farsi catturare dall’enigma di un thriller.
La grandezza del cinema è di essere un diamante con mille facce: si può sempre trovare quella adatta al momento che si sta vivendo.
L’importante è andare al cinema e non guardare il film sullo schermo di casa: vedere un film è un rito e come tutti i riti ha bisogno di un tempio.
Quello che la rubrica si propone, nei limiti del possibile, è evitare l’inutile imbecillità, la volgarità fine a se stessa e l’idiozia: ce ne sono già troppe nella vita quotidiana fuori dal cinema.
Poiché però sbagliare è umano, si chiede scusa in anticipo per eventuali errori.
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Mesi precedenti: GENNAIO 2017
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A UNITED KINGDOM – L’AMORE CHE HA CAMBIATO LA STORIA
Genere: drammatico
Regia: Amma Asante
Cast: Rosamund Pike, David Oyelowo, Tom Felton, Charlotte Hope, Laura Carmichael, Jack Davenport, Nicholas Lyndhurst
Origine: Gran Bretagna
Anno: 2016
In sala dal 2 febbraio 2017
Il film: il terzo lungometraggio di Amma Asante (A way of life del 2004 e La ragazza del dipinto del 2013 i primi due) ne conferma la tendenza a esplorare le barriere culturali, nazionali e razziali e le conseguenze in termini di giustizia sociale e di eguaglianza. A United Kingdom è ispirato dall’opera Colour Bar della storica e saggista Susan Williams imperniata sulle straordinarie figure di Seretse Khama e di sua moglie Ruth Williams. La vicenda inizia nel 1947 quando Seretse Khama è un giovane e brillante studente africano che vive a Londra dove sta completando i suoi studi in legge e le sue attente osservazioni sul sistema politico interno e internazionale della Gran Bretagna. Durante un ballo della Missionary Society incontra Ruth, una giovane donna bianca che dal conflitto mondiale da poco terminato (durante il quale conduceva le ambulanze in un aeroporto del Sussex utilizzato come base per atterraggi di emergenza) ha acquisito grinta e coraggio e che si è conquistata un buon impiego alla Lloyds Insurance (non era una dattilografa come apparso su certa stampa forse per accentuare i caratteri di ‘romanzo rosa’). È amore a prima vista. Seretse, però, non è un giovane africano comune (e questo nel 1947 e non solo in Gran Bretagna era già un grosso problema per un matrimonio), ma un principe e soprattutto il re designato del Bechuana, poverissimo protettorato britannico (status richiesto alla regina Vittoria dal nonno di Seretse per evitare di essere incorporati nel vicino Sud Africa). Nel grande Impero Britannico (alla fine della Seconda Guerra Mondiale occupava circa un quarto della superfice del pianeta) il Bechuana non contava nulla essendo semideserto e poverissimo per cui non aveva nemmeno una capitale amministrativa: gli interessi inglesi erano seguiti dalla sede in Sud Africa dell’Alto Commissariato Britannico che controllava e condizionava i pochi poteri dei governanti locali. Il governo britannico non era molto gradito in Bechuana, ma era accettato come il minore dei mali in presenza della nascente politica di apartheid del potente e ricco confinante Sud Africa. Il merito di non fare di A United Kingdom un film romantico (come lascerebbe pensare il sottotitolo italiano) o un pamphlet anticoloniale va riconosciuto ad Amma Asante che figlia d’immigrati ghanesi è cresciuta nell’hinterland londinese e osserva la storia (e la cronaca) dalla duplice prospettiva offertale dalle origini e dal sentirsi cittadina britannica. Ha, quindi, trasferito nel film l’esperienza dell’aver vissuto in prima persona l’emozione dell’indipendenza del Paese d’origine (1957) e anche le motivazioni dei politici britannici (conservatori e laburisti) condizionati dal preservare gli interessi nazionali nel caso specifico minacciati dal governo bianco del Sud Africa con il ricatto di negare l’accesso alle risorse di uranio e d’oro e di invadere il Botswana. È il quadro culturale e storico di quegli anni che spiega come il matrimonio tra Ruth e Seretse abbia provocato non solo la reazione negativa delle famiglie di lei e di lui (compreso l’amato zio Tshekedi, reggente in attesa di poter consegnare il trono al nipote), ma anche i pesanti interventi (anche attraverso la Chiesa) del governo inglese sotto la pressione del Sud Africa che non poteva tollerare un matrimonio reale misto ai propri confini nel momento in cui avviava una politica di segregazione razziale. Altro aspetto interessante del film è l’aver descritto le due estraneità parallele di Seretse nella Londra bianca e di Ruth nella tribù e nella famiglia del marito e il percorso della giovane regina per divenire parte integrante di quella comunità nonostante il diverso colore della pelle e i grandi problemi (compreso il lungo esilio di Seretse e il dissidio tra zio e nipote che rischiava di spaccare la popolazione) creati dalla sua presenza. A United Kingdom racconta il lungo e difficile cammino di una nazione verso l’indipendenza e il superamento della povertà grazie alla tenacia, all’intelligenza e al senso del bene pubblico di Seretse e di suo zio e mette in luce come non sia il colore della pelle a rendere gli uomini e le donne diversi, ma il pregiudizio dovuto alla mancanza di cultura, all’egoismo e alla paura del nuovo e del diverso.
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BILLY LINN: UN GIORNO DA EROE
Genere: drammatico
Regia: Ang Lee
Cast: Joe Alwyn, Kristen Stewart, Chris Tucker, Garret Hedlund, Vin Diesel, Steve Martin
Origine: Usa/Gran Bretagna/Cina
Anno: 2016
In sala dal 2 febbraio 2017
Il film: Ang Lee, regista pluripremiato (tra i diversi premi anche tre Oscar), traduce per lo schermo Billy Lynn’s Long Halftime Walk (titolo originario anche del film), il best-seller di Ben Fountain, avvalendosi di un ottimo cast tra cui Joe Alwyn che rende con efficacia e senza eccessi un Billy Lynn incredulo di quanto gli è successo e sempre più dubbioso di essere in realtà uno strumento utilizzato (a sua insaputa) per altre finalità. Il film racconta dal punto di vista del protagonista la storia del soldato semplice Billy Lynn divenuto, dopo una estenuante battaglia in Iraq, un eroe per le azioni compiute. Per premio sia lui sia i compagni del reparto protagonista dello scontro hanno una licenza da trascorrere in Patria impegnati in un tour con cui esaltare la vittoria, tour che prevede una folkloristica e propagandistica conclusine il Giorno del Ringraziamento con una cena di gala e una partita di football. Per certi aspetti Billy Lynn ricorda – pur non raggiungendo fortunatamente l’enfasi di opere come Berretti Verdi – certi film volti a esaltare l’eroismo dei combattenti americani. Decisamente più interessante la parte in cui Billy racconta il tour promozionale mettendolo in parallelo attraverso una serie di flashback con quanto realmente accaduto al suo reparto in Iraq e portando alla luce la diversità tra il realismo della guerra e quanto di questa è fatto percepire agli Americani attraverso i media e opportune azioni (quasi un’operazione di marketing) finalizzate a coinvolgere i sentimenti della popolazione. Il regista è molto abile a tenere in equilibrio i due aspetti realizzando un’opera con molte scene spettacolari (anche senza il 3D a 120 fotogrammi al secondo in cui è girato) con in sottotraccia l’invito ad andare oltre le verità apparenti.
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INCARNATE – NON POTRAI NASCONDERTI
Genere: horror
Regia: Brad Peyton
Cast: Aaron Eckhart, David Mazouz, Carice van Houten, Catalina Sandino Moreno, Emjay Anthony
Origine: Usa
Anno: 2016
In sala dal 2 febbraio 2017
Il film: l’idea su cui si basa Incarnate è originale e stimolante: una lettura laica dell’esorcismo con conseguenti mezzi tecnico-scientifici per liberare le vittime dalle possessioni demoniache. Seth Ember (Aaron Eckhart) è uno scienziato dotato della straordinaria capacità di manipolare l’inconscio attraverso visioni tra il reale e l’onirico entrando nelle menti delle persone possedute con una macchina speciale. Un giorno è chiamato a risolvere il caso di un ragazzino (interpretato dal giovanissimo David Mazouz, unico nel cast a trasmettere emozioni) particolarmente tormentato e scopre che lo spirito maligno che lo perseguita è lo stesso che ha causato la morte di suo figlio e di sua moglie. Ember per distruggere il feroce demone e salvare la vita del giovane ragazzo dovrà entrare nella sua mente non senza aver affrontato il proprio passato chiudendo i conti ancora irrisolti. Peyton ha avuto l’intuizione di abbandonare la tradizione religiosa dell’esorcismo avventurandosi in un terreno inesplorato, ma purtroppo ha mostrato di non avere le capacità di dominare una materia così complessa e di sopperire alle indubbie debolezze della sceneggiatura creando comunque un’atmosfera inquietante. Purtroppo sono carenti di pathos anche i momenti-chiave (ambientati nell’universo mentale) che risultano privi di quell’aspetto visionario che avrebbe dovuto affascinare e coinvolgere lo spettatore.
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SLEEPLESS – IL GIUSTIZIERE
Genere: azione
Regia: Baran bo Odar
Cast: Jamie Foxx, Michelle Monaghan, Dermot Mulroney, David Harbour, Tip ‘T.I.’ Harris, Gabrielle Union, Scoot McNairy
Origine: Usa
Anno: 2017
In sala dal 2 febbraio 2017
Il film: Vincent Downs è un tenente della polizia che opera a Las Vegas sotto copertura (incarico che per la sua segretezza gli ha messo in crisi il matrimonio e il rapporto con il figlio) ed è coinvolto nella sparizione di un’ingente partita di cocaina sottratta a un potente gruppo criminale con ramificazioni in tutti gli ambiti, compreso quello della polizia. Inutile dire che la sparizione della droga non è molto gradita ai due boss cui era destinata: uno di questi è Rubino, proprietario della casa da gioco Luxus, che pesantemente pressato dal boss di riferimento (principale azionista dell’impresa) – fa rapire il figlio quattordicenne del poliziotto promettendo di liberarlo solo dopo la restituzione della cocaina. Vincent inizierà così una corsa contro il tempo per salvarlo, ma si troverà a dover combattere su due fronti: la potente e ramificata organizzazione criminale e l’Agente degli Affari Interni (Usa) che lo ritiene corrotto e gli dà la caccia come ai criminali. L’alto numero di scene d’azione, inseguimenti e scontri dentro e fuori la casa da gioco, anche se a volte rasentano l’assurdo, ne fanno un’opera da non perdere per gli appassionati del genere. Il regista svizzero Baran bo Odar per questo esordio hollywoodiano si è ispirato a un film franco-belga del 2011: Notte Bianca (di Frédéric Jardin) che peraltro aveva un ben diverso spessore.
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SMETTO QUANDO VOGLIO – MASTERCLASS
Genere: commedia
Regia: Sydney Sibilia
Cast: Edoardo Leo, Paolo Calabresi, Valerio Aprea, Libero de Rienzo, Stefano Fresi, Greta Scarano, Luigi Lo Cascio, Pietro Sermonti, Gianpaolo Morelli, Valeria Solarino, Marco Bonini, Lorenzo Lavia, Rosario Lisma
Origine: Italia
Anno: 2017
In sala dal 2 febbraio 2017
Il film: nel 2014 Smetto quando voglio è stata una sorpresa premiata dal grande successo di pubblico (oltre quattro milioni di euro d’incasso) peraltro meritato rivelando in Sydney Sibilia un giovane regista (classe 1981) capace di idee originali, peraltro non avulse dall’attualità della società italiana le cui problematiche ha saputo trattare con intelligente leggerezza e ironia. Quel successo è all’origine di Smetto quando voglio-Masterclass che – confermando la vocazione di Sibilia a scelte audaci – non è un semplice sequel creato per sfruttare il ricordo del film precedente (“prendi i soldi e scappa”: così Sibilia ha scherzosamente definito la percezione che il pubblico ha di molti sequel), ma il secondo capitolo di una trilogia di cui la terza e ultima parte (Smetto quando voglio-Ad Honorem) con un’altra coraggiosa innovazione è stata girata contemporaneamente al film appena uscito e dovrebbe approdare sugli schermi in autunno. Naturalmente questi due capitoli sono strettamente interconnessi e in Masterclass vi sono molte premesse le cui conclusioni si troveranno in Ad Honorem. Sibilia ha anche mostrato che fare un sequel che non sia un duplicato dell’originale non è esclusiva della cinematografia statunitense (vedi per esempio il recentissimo T2 Trainspotting). In Masterclass è rovesciato il focus del primo film: la ‘banda dei laureati’ non ha più la polizia come antagonista, ma opera quale braccio occulto di questa per individuare e colpire le organizzazioni criminali. Per rispondere alle nuove necessità sono necessari altri cervelli di prim’ordine, come sono Pietro Zinni & soci, e dove reclutarli se non all’estero tra i giovani laureati italiani di valore costretti a lasciare un Paese in cui i fondi per la ricerca sono un fanalino di coda nel treno delle spese? Torna quindi il tema della disoccupazione giovanile e di quella dei laureati in particolare (per chi non ha visto il primo film: Zinni ha creato la banda dei laureati e dei ricercatori – tutti rigorosamente disoccupati pur avendo conseguito lauree con il massimo dei voti e i più alti riconoscimenti – non avendo i soldi per la lavatrice) stavolta ‘giocando’ sul fenomeno dei cervelli in fuga. Sibilia tra una risata e uno sberleffo denuncia l’amara realtà di un Paese che non ha una politica per i giovani (non è sufficiente ed è soprattutto inutile e dannosa l’elemosina dei bonus) condannati (quando va bene) a lavori precari senza prospettive, che considera la ricerca l’ultimo dei problemi su cui investire (pagando montagne di royalty ai Paesi politicamente più intelligenti) e in cui la criminalità a volte può agire quasi allo scoperto data la lentezza e la vischiosità del sistema ad adeguare le normative ai nuovi crimini. Il filo conduttore di Masterclass è dato dall’incapacità dello Stato a identificare i componenti delle nuove droghe e a capire in che modo prodotti legali possano dar vita a prodotti illegali che logicamente possono circolare liberamente finché non sono dichiarati tali. Da qui la necessità di ricorrere alla ‘banda Zinni’. Il sequel, inoltre, si differenzia dal primo film per essere tendenzialmente un ‘film on the road’ (anche in questo caso corretto da una vena di irriverenza verso il genere e quasi di autoironia) che raggiunge il suo apice nelle splendide sequenze dell’assalto al treno in cui il regista rivela di possedere la dote – abbastanza rara nei registi italiani specialmente di commedie – di saper dirigere con equilibrio e senza sbavature scene d’azione. Sibilia dimostra con Masterclass che è possibile creare un prodotto molto divertente senza rinunciare a far riflettere lo spettatore (che vuol farlo) adottando un linguaggio ricco di battute al vetriolo, collocando i personaggi in molte occasioni tra la realtà e la graphic novel e realizzando una terza via – quasi completamente sconosciuta da noi – tra la commedia completamente staccata dal mondo reale e quella che vi si identifica in modo eccessivo. Un film da vedere e godere anche se non si è visto quello del 2014.
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VISTA MARE
Genere: drammatico
Regia: Andrea Castoldi
Cast: Arturo Di Tullio, Pietro Sarubbi, Lorenza Pisano, Toni Pandolfo
Origine: Italia
Anno: 2017
In sala dal 2 febbraio 2017
Il film: Vista Mare è un film da vedere con simpatia e senza cercare il ‘pelo nell’uovo’ ed è un prodotto molto raro nel panorama cinematografico italiano: è stato realizzato da una piccola casa indipendente (fa capo allo stesso regista e a Stefania Falanga) in soli 15 giorni tra Piacenza, Torino e Milano avvalendosi di un cast tecnico esiguo formato da cinque persone e di un gruppo di attori ricco di buona volontà. È facile quindi immaginare quanti e quali siano stati gli sforzi per conseguire il primo obiettivo: raggiungere le sale cinematografiche (fatto assai difficile con un sistema distributivo come quello italiano). Il secondo – almeno eguagliare il numero di premi conseguiti dall’opera di esordio (Ti si legge in faccia del 2014) del giovane (classe 1976) regista monzese Andrea Castoldi – ci si augura possa essere raggiunto perché il racconto è originale, intelligente e non banale e la resa cinematografica di buon livello considerate le difficili condizioni in cui attori e regista hanno operato. La storia è proiettata in un futuro non lontano (2020) del nostro Paese e ipotizza una drammatica inversione di ruolo: l’Italia da meta agognata di poveri, diseredati e profughi a causa di una disastrosa crisi economica è tornata ad essere paese di emigranti che fuggono da un latente stato pre-insurrezionale scandito da manifestazioni e rivolte popolari. Meta preferita degli aspiranti emigranti è la vicina Albania, terra prospera, ricca di lavoro e speranze e raggiungibile attraversando con i gommoni l’Adriatico che all’altezza delle coste pugliesi non è poi molto largo, per cui la Puglia assalita da decine di migliaia di persone è al collasso ed è stata militarizzata e i suoi confini non possono essere superati. Personaggio centrale è Stilitano, un pizzaiolo agli arresti domiciliari dopo aver scontato tre anni di carcere per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per ironia del destino costretto a emigrare clandestinamente nella speranza di poter ricominciare a vivere e lavorare. È aggregato dagli scafisti (o presunti tali) a un gruppo di Italiani, nascosto da settimane in un vecchio casolare abbandonato in una foresta e come lui in attesa di poter salire su un gommone per raggiungere la sognata Albania. Il tempo trascorre tra la speranza dell’arrivo del giorno d’imbarco e il dover sfuggire ai rastrellamenti dei militari italiani (Stilitano è anche ricercato per evasione dagli arresti domiciliari). Castoldi ricostruisce paure, speranze, dubbi, sofferenze, ricatti… cui sono sottoposti questi uomini e donne che per fuggire l’inferno giocano gli ultimi averi sulla ruota dell’ignoto: troveranno un imbarco? Arriveranno a destinazione o il gommone affonderà come avviene con grande frequenza? Come saranno accolti dal Paese in cui arrivano? Il film è aperto: non esprime giudizi o tesi, ma è solo un invito alla riflessione e a pensare noi al posto di quegli extracomunitari che troppo spesso richiudiamo in ghetti o sfruttiamo ignobilmente. E speriamo che Castoldi non sia un veggente, anche se la povertà emergente e le diseguaglianze dilaganti creano non pochi timori per il futuro del nostro Paese. Vista mare è un film che fa simpatia e al quale si perdonano volentieri qualche difetto e qualche incertezza. Un’ultima osservazione: spesso capita di vedere commedie di un’assurda banalità, a volte girate in modo penoso, alle quali secondo i titoli di testa sono stati assegnati aiuti del Ministero della Cultura per il loro valore culturale: non sarebbe meglio concentrare le disponibilità economiche per sorreggere tentativi validi come il film di Castoldi o quelli di altri giovani registi realizzati o meno da produzioni indipendenti?