Dimenticate la Spagna del XV secolo, gli ornamenti, i decori, ma anche le brucianti passioni: Il trovatore in scena al Teatro dell’Opera di Roma, che conclude la trilogia popolare (dopo Rigoletto e la Traviata) al Costanzi viene catapultato in un Guerra atemporale, assurda e irrazionale, l’unica che riesca in qualche modo a giustificare le forti tinte melodramma di Verdi.
Lo aveva annunciato chiaramente Àlex Ollé della Fura dels Bauls (con la collaborazione di Valentina Carrasco alla regia che aprirà la stagione d Caracalla con una nuova Carmen) che torna all’Opera dopo la Butterfly in salsa Yankee delle Terme di Caracalla: il regista era partito da una certa assurdità del libretto carico di qualche incoerenza e di cocenti per traslarle e giustificarle fra gli orrori e le sofferenze di una simil Prima Guerra Mondiale più o meno irreale evocata già fra le maschere a gas dell’incipit, fra i costumi e le scene.
L’idea è forte, quasi stravolge l’intero Trovatore e lo rende un’opera più cerebrale e poco appassionante, ma l’allestimento funziona sulla scena del Costanzi dove il Trovatore era assente da 16 anni.
Àlex Ollé non si limita a sistemare il terzetto di interpreti l’uno all’accanto all’altro, ma sposta benissimo le numerose masse in scena ampliata da specchi che riflettono non solo il palco, ma anche il direttore stesso creando un effetto di raddoppio e di voyerismo.
Gli interpreti (due i cast in scena), la celestiale Leonora di Vittoria Yeo, la decisa Azucena di Silvia Beltrami, il Manrico di Diego Cavazzin (che si alterna con Stefano Secco dopo i forfait di Fabio Sartori e Marcelo Alvarez), il Conte di Luna di Rodolfo Giugliani, sono molto a loro agio come attori e sempre ben orchestrati da Àlex Ollé, danno il meglio di sé nei duetti e nelle arie più liriche.
Inevitabile che qualcosa venga di tanto in tanto forzato, il libretto a volte (e inevitabilmente) a volte tradito (vedi la fucilazione di Manrico), ma tutto mantiene una propria interna coerenza anche attraverso sorprendenti soluzioni di regia (vedi l’effetto congelato) mai scontate.
Il forte impatto estetico di un allestimento cupo e tetro, realizzato in collaborazione con Amsterdam e Parigi, è costante: merito dell’uso intelligente, ma gratuito delle scene (di Alfons Flores) con gli annunciati parallelepipidi-monoliti che vengono via via riposizionati, ora a formare un labirinto, ora un cimitero con tanto di croci, ora vengono sospesi in aria, ora scompaiono per lasciare posto alle trincee o creare gli spazi interni a richiamare il senso estremo di oppressione e di morte disseminata ovunque.
Qualche tocco di colore fra le divise militari arriva dalle macchie dei colori luminosi (bellissimo il rosa-lilla di Leonora) che si stagliano in scena, ma sono magnifiche le luci di Urs Schönebaum ora calde, ora cupe che conferiscono reale senso drammaturgico e drammatico all’intero allestimento mostrando chiaramente al pubblico (quasi sold out tanto che la recita del 3 marzo è stata inserita come extra nel cartellone) l’ambivalenza fra i due colori dell’opera, amore e odio, colori cupi, ma suoni squillanti.
Un’ambivalenza che Jader Bignamini (già suo podio per La Traviata di Valentino) che torna a dirigere l’Orchestra del Teatro dell’Opera (che di tanto in tanto copre le voci dei protagonisti) in Verdi ha cercato di sottolineare in ogni dove.
Il pubblico però, che attendeva da 16 anni Il trovatore, si esalta per le arie più famose (e sono tante le pagine celebri della partitura) che scatenano l’applauso in un allestimento poco passionale, ma soprattutto cerebrale. Ultime repliche il 7 e il 10 marzo dopo aver registrato quasi il sold out.