ideazione e regia Danio Manfredini
con Danio Manfredini e Vincenzo Del Prete
produzione La Corte Ospitale – Teatro Herberia
assistente alla regia Vincenzo Del Prete
progetto musicale Danio Manfredini, Cristina Pavarotti, Massimo Neri
disegno luci Lucia Manghi, Luigi Biondi
collaborazione ai video Stefano Muti
sarta Nuvia Valestri
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In un gremito Teatro Area Nord di Piscinola – periferia di Napoli – va in scena Danio Manfredini col suo lavoro “Vocazione”.
Lo spettacolo ci permette di affondare lo sguardo nel cuore del mestiere dell’attore colto nella pienezza della sua fragilità; il suo corpo diviene mutabile, materia plasmata che sfugge alla padronanza di sé e ne incarna tutta la marginalità e condanna che emergono forti ed acute nei personaggi che Manfredini, come preso da un processo maieutico interminabile, rende vivi in scena. È questo un teatro che parla di sé, che stancamente si autoproclama manifesto fatiscente e decadente di se stesso, ma che persevera in un residuo vitale impossibile da sfiancare. Per cogliere l’essenza di Vocazione, occorre forse andare al di là delle citazioni di personaggi che si affastellano sul volto di Manfredini: l’impressione più vera e struggente dello spettacolo continua a risiedere nella nostra memoria con l’eco dei versi di Mariangela Gualtieri che la voce dell’artista declama, mentre tutto il suo corpo si riconosce in una strenua lotta fra l’impossibilità di un’armonia ed uno slancio vitale che pulsa, sino a far esplodere la propria nervatura sotto la pelle. Tutto risiede in “quei millimetri corti” in cui quel corpo, come quello del paralitico, si dilata, si allunga, si contrae in questo enorme loculo ottenebrato che si chiama palcoscenico, imprimendo una relazione concreta e tangibile fra la consapevolezza dello starci, occupandone una porzione con la propria fisicità e tutto lo spazio restante, dimensione di oblio e vanità.
Le parole della Gualtieri imprimono su tutta la sequenza di Vocazione da Bernhard, Williams, Harwood, Checov e Fassbinder, il continuo pulsare di un’energia agonizzante e vitalizzante insieme; il teatro è còlto nel suo setacciare i propri vuoti di senso attraverso il corpo dell’attore nel suo trascinarsi di personaggio in personaggio, sino a divenire ironicamente consapevole del suo “destino terribile e dolcissimo di non finire mai”. I versi finali di Testori affondano nei tessuti muscolari ed ossei, esattamente come quelli della Gualtieri, restituendoci una condizione marginale di strenua fragilità e resistenza insieme. Il teatro è una prigione che interna l’attore, costretto a mille vite non sue che trapassano sul suo volto senza che questi possa venir più alla luce, nel solco segnato dalla traiettoria del non finibile per citare ancora Testori, ma nel quale la vita biologica e umana prende a frantumarsi, quando la carne del viso è più effimera ed evanescente di un cerone. Così è il vecchio Minetti, per sempre inchiodato al ruolo di un Lear interpretato trent’anni prima, il suo passo lento misura la cronometria dello squarcio drammaturgico di Bernhard, prima proiezione di quel corpo disarticolato in cui s’innervano le parole della Gualtieri. Poi si riaffiora nei panni di Nina nel commiato a Treplev, nel suo confondere la vita, il teatro, l’amore, se stessa con un gabbiano.
Ed ancora, il gioco delle parti di Manfredini prosegue, spalleggiato da Vincenzo Del Prete con Servo di scena di Harwood, anche qui istrioni di terz’ordine fanno i conti con le miserie del loro teatro, “prigionia” spirituale e corporea che le parole altisonanti del Lear non scalfiscono ma in qualche modo ne rafforzano l’impressione claustrofobica e vana, l’insulsaggine della parola finta, scritta e recitata. La menzogna e la finzione prevalgono su un atto di onestà interiore, si è un po’ come l’Elvira di Fassbinder: il suo corpo tradisce la verità della sua anima soffocata dallo stridore con la sua identità biologica. Il teatro, allora, è un viottolo per marchettari, è surrogato di dimora in assenza di questa dove urlare la paura della morte, come accade ne Il canto del cigno, quando Svetlovidov si aggira per le quinte mentre il pubblico è già nelle loro case, già dimentico del proprio buffone.
In questa continua metamorfosi attoriale, l’entra ed esci da personaggi, Danio Manfredini per circa un’ora e un quarto pone lo spettatore al cospetto della tensione fisica del corpo che fa a pugni con lo spazio circostante che per quanto sgombro, privo di effettiva scenografia se non le sedie poste ai lati su cui poggiano parrucche, scarpe, abiti, diviene un vero e proprio campo magnetico. Le pareti (invisibili) sembrano comprimere, asfissiandola, l’anima dell’attore che altro non può che riconvertirsi entro i personaggi che il corpo non può che incarnare. I suoi muscoli e nervi si dilatano quanto più pare contrarsi nella sua mente lo spazio scenico, la buia cavità nella quale tutto ha un’origine e forse non una fine.
Vocazione di Danio Manfredini è uno spettacolo che permea di un senso di stanchezza e di struggente malinconia la contemporanea tendenza al discorso autoreferenziale del teatro. Costruisce la sua evanescente drammaturgia con testi della letteratura teatrale moderna che demistificano la funzione del teatro e dell’attore, scomponendo quasi nell’immediato l’onnipresente tentazione di metateatro che all’interno dello spettacolo perde via via il suo vigore. Ciò accade perché ogni sorta di restituzione integrale dell’arte teatrale è svanita, né un’ideologia o un pensiero estetico, persino una poetica si invita a cogliere. Non c’è nulla, se non l’estrema testimonianza di un mestiere, come di un luogo, in un momento preciso di un percorso artistico e umano in cui sia la vita che il palcoscenico equivalgono a una lancinante solitudine. Resta l’attore che non può più tenere alcuna sopportazione, che sente sottopelle esplodersi mentre una forza maggiore lo tiene circoscritto in quei millimetri corti che ancora di più imprimono in lui quell’immutato senso di vertigine. La marginalità, dunque, di una vita (non) vissuta, il farsi periferia di uno spazio centrale per eccellenza (il palcoscenico) da intendersi in tutti i modo possibili e immaginabili che misurino anche il senso del fare teatro e di frequentarlo nella nostra società. Ancora. Il rapporto fra spazio e fisicità, testimonianza individuale di un mestiere artigiano, risultato di una ricerca costante che traduce la parola in sequenze motorie e gestuali atte a rideterminare il vuoto scenico intorno. Non un’abilità meramente tecnica, ma più che altro un desiderio di attraversare lo spazio, spinto dalle ragioni più profonde che spingono a muovere le membra e la mente. Pratica scenica si, pedagogica, creatrice ed emozionale. Ma anche processo del (ri)conoscersi entro un sistema spazio e temporale, acquisendo con il proprio corpo il senso dello stare. In scena, come nella vita. Nonostante tutto.