32″.16 è uno spettacolo sul tema dell’immigrazione che adotta nei confronti di questo fenomeno epocale un approccio diversificato e in parte spiazzante: è un’accorata testimonianza della vicenda emblematica di Samia Yusuf Omar, “perdente” nello sport e nella vita, e al tempo stesso una graffiante denuncia dell’imbarbarimento della società occidentale in cui il prevalere dell’ideologia del successo e dell’arricchimento ha come contraltare l’ottundimento delle coscienze nonché la tendenziale disumanizzazione. L’atto unico è diviso in tre parti, l’ultima delle quali funge da breve epilogo: una “Preghiera al mare” (Mediterraneo) che sancisce il ritorno degli innumerevoli morti nelle braccia della Natura che meglio saprà accoglierli rispetto alla “società civile”. Nella prima parte si ripercorre la storia di Samia partendo del suo faticoso costruirsi una formazione di atleta nella difficile realtà socio-culturale di Mogadiscio, avversa all’emancipazione delle donne e della gente di colore; alla sua partecipazione alle Olimpiadi di Pechino del 2008 che la vede classificarsi, nei 200 metri, all’ultimo posto con un tempo improponibile (32″.16) per una competizione internazionale di quel livello; all’inutile tentativo di procurarsi i documenti per emigrare regolarmente in Europa come atleta candidata alle Olimpiadi di Londra del 2012; all’odissea del viaggio attraverso il deserto costellato di disagi e maltrattamenti, fino alla tragica “morte annunciata” in uno dei barconi della speranza che attraversa il Mediterraneo partendo dalla costa nord-africana alla volta di Lampedusa. Nella seconda parte assistiamo a una sorta di favola nera dai tratti surreali e grandguignoleschi in cui due ipotetici sopravvissuti, fratello e sorella, vivono in un’isola deserta, in uno stato di amorale istintualità che più che somigliare a un eden primordiale allude a una postmoderna condizione di alienazione e isolamento regressivo che non può non rimandare metaforicamente all’aberrazione di certi microcosmi familiari (o, per estensione, di interni gruppi sociali, comunità nazionali ecc.) in cui paura, prevaricazione, insensibilità alimentano un progressivo distacco dalla realtà esterna; un “universo parallelo” che ha imparato a convivere con la montagna di cadaveri che il mare deposita sulla spiaggia, e che sembra aver perso qualsiasi capacità di comunicazione col mondo dei vivi e degli umani, com’è testimoniato dalla visita della donna che è finita alla deriva sull’isola mentre era alla ricerca di un gruppo di bambini dispersi e che viene progressivamente fagocitata nella spirale di abbruttimento dell’incestuosa coppia che, significativamente, veste abiti borghesi.
L’eclettica scrittura di Michele Santeramo ricorre agli stilemi del teatro di narrazione nella fase dell’epico resoconto delle vicissitudini di Samia ed è certamente memore della drammaturgia maggiore del teatro d’avanguardia novecentesco (da Alfred Jarry a Eugene Ionesco) nel dare forma alla farsa apocalittica dei sopravvissuti la cui vena paradossale è però di sapore tipicamente italico. La regia di Serena Sinigaglia, conseguentemente, con disinvoltura e perizia dosa empatia e distacco critico nella prima parte in cui organizza il gruppo dei tre personaggi-narratori come un Coro che, alternativamente o simultaneamente, entra nelle pieghe emotive della vicenda, la commenta ironicamente o amaramente, canta motivi africani, discute con toni prosaici e quotidiani del caso di Samira, ecc.; nella seconda parte invece rende esteticamente gradevoli i due “mostri fantastici” smussando il disgusto prodotto dalla loro crudeltà e impietosità attraverso la leggerezza del loro gioco infantile (che appare però meno catartico di quello di ubuesca memoria). Nel passaggio tra la prima e seconda parte la Sinigaglia raggiunge il massimo livello nella qualità brechtiana dello spettacolo laddove l’uso del video, che riproduce una sequenza di immagini che immortalano i fasti dei giochi olimpici, riesce a straniare la vicenda di Samia la cui valenza tragica è sottolineata dal personaggio-coreuta che, munita di microfono, narra simultaneamente la caduta della giovane somala dal barcone.
Tindaro Granata, Valentina Picello e Chiara Stoppa hanno dato il meglio di loro dimostrando una notevole duttilità e una non comune capacità di modificare stili recitativi in intervalli temporali a volte decisamente ristretti; un esempio, il loro, di teatro di ensemble che riconferma Serena Sinigaglia e l’A.T.I.R (Associazione Teatrale Indipendente per la Ricerca) come una delle realtà più stimolanti dell’attuale panorama teatrale.
Autore: Michele Santeramo
Attori: Tindaro Granata, Valentina Picello, Chiara Stoppa
Regia: Serena Sinigaglia
Scene e costumi: Stefano Zullo
Colonna sonora: Silvia Laureti
Luci: Sarah Chiarcos
Video: Elvio Longato