Tutti siamo bombardati; chi da una bulimia di informazioni, chi da pressioni psicologiche, di da false promesse e chi da bombe vere e proprie. Una differenza sostanziale, ma alla quale spesso non si fa più caso.
È tutta una questione di abitudine, mi dico. Ma è davvero così? Può l’essere umano ignorare il dolore o fingere indifferenza di fronte al puro male solo perché ne ha visto troppo, perché ne è a stretto contatto quotidianamente?
L’unica spiegazione che sembra meno difficile da accettare è pensare all’apatia come ad una scelta di difesa; una sorta di salvaguardia del proprio essere per non abbandonarsi alla consapevolezza e quindi alla paura, che forse, in questi casi, è più giusto chiamare terrore. Il terrore di smettere di essere umani, di non riuscire ad immedesimarsi nelle condizioni di vita degli altri, di non cercare le motivazioni dei comportamenti. Una strada troppo semplice, certo, ma a volte necessaria. È così che appare anche ad una delle protagoniste di “Credoinunsoldio”, Eden Golan (Mariangela Torres), docente di storia ebraica e attivista nel sociale nel momento in cui vede crollare ogni sua certezza, tutti i valori che difendeva e in cui credeva. Una donna, da sempre convinta propugnatrice di una comunicazione scevra di pregiudizi, contro ogni estremismo, che aveva fatto del dialogo il suo stendardo, finisce per desiderare un muro insuperabile tra lei e i palestinesi, dopo essere scampata ad un attentato. È la paura che la guida adesso, mista ad un senso di odio e di vendetta – che lei preferisce chiamare “sicurezza”- , che la rendono quasi un burattino, estranea a se stessa, una persona così diversa da quella che credeva di essere al punto da spingerla ad annuire, seppur in maniera solo accennata, alle parole di un collega che, riferendosi ad alcuni palestinesi rimasti coinvolti in un atto terroristico, ammette cinicamente “se fossi un medico non li vorrei curare”.
Quanto siamo costretti a fare i conti con i nostri fantasmi, il nostro senso di inadeguatezza e i nostri timori si può comprendere invece guardando gli occhi speranzosi di Shirin Akhras (Manuela Mandracchia), studentessa ventenne palestinese che ha deciso di rinunciare alla sua vita in nome di un ideale maggiore, potente. La ragazza, che vive con tangibile ansia e paura le prove che dovrà affrontare per poter diventare martire nelle brigate di Al-Quassam, nutre in sé una forte convinzione alimentata da un’alternanza di momenti di rabbia, attesa e gioia, che la costringerà a fare violenza su se stessa quando dovrà sostenere la seconda prova, troppo crudele, per lei, da poter anche solo immaginare.
Eden Golan e Shirin Akhras rappresentano le due facce di una medesima realtà; finiscono per incarnare lo spirito israeliano l’una e quello palestinese l’altra; rappresentano l’opposizione che prende corpo, che diventa materia attraverso le loro parole, i loro sentimenti e, soprattutto, i loro punti di vista. A fare quasi da giudice super partes è invece Mina Wilkinson (Sandra Toffolatti), soldatessa americana dall’animo coriaceo che banalizza la morte, odia doversi trovare in quei territori e dimostra, con battute taglienti e impassibili, quanto il popolo occidentale non faccia più caso a quello che succede in quel posto dimenticato da tutti, forse soprattutto da Dio. Un Dio in cui lei non crede e che invece sembra rappresentare il pensiero vero e assoluto di quelle popolazioni contro cui deve intervenire, facendo “non quel che è giusto, ma quel che conviene” perché non esiste giusto o sbagliato, bianco o nero; le truppe americane, come anche i media, devono interpretare e riportare quello che fa comodo. È forse anche per questo che tutto sul palco ha un rimando al grigio: è il colore predominante ed è anche una parola più volte ripetuta dalle tre protagoniste. I tavolini sono in ferro grigio, la casa- cubo a cui si fa riferimento in scena è grigia, come anche la polvere che ci sembra di percepire quasi soffocante quando Eden Golan, Shirin Akhras e Mina Wilkinson raccontano le loro storie, medesime e inconciliabili.
Sono narrazioni singole, eppure intrecciate da un destino comune e da attimi e sentimenti condivisi. Monologhi che sembrano sovrapporsi uno all’altro, uniti da scansioni temporali ben evidenziate sul fondo della scena con numeri digitali che scorrono a folle velocità per poi bloccarsi in momenti e date ben precise. Stefano Massini, attraverso questa versione quasi onirica di una realtà così tangibile e concreta, propone una lettura intelligentissima e diversa di un conflitto ben noto, quello israelopalestinese. Non si cerca la verità, perché una verità non esiste; è solo uno specchio, ma non lucido e splendente; è uno specchio deformato, pieno di polvere grigia che può riflettere solo quello che vuole vedere chi ci si mette davanti.
Credoinunsolodio
di Stefano Massini
diretto e interpretato da Manuela Mandracchia, Sandra Toffolatti, Mariangeles Torres
scene Mauro De Santis
costumi Gianluca Sbicca
luci Claudio De Pace
musiche Francesco Santalucia
movimenti Marco Angelilli
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa