Difficile trovare un’opera così spiccatamente politica come l’Andrea Chénier di Umberto Giordano del 1896 assente dal palcoscenico del Teatro dell’Opera di Roma da ben 42 anni: è tornata al Costanzi in occasione del centenario della nascita del compositore di Foggia in un sontuoso allestimento coprodotto con la Fenice di Venezia e firmato da Marco Bellocchio, autore di riferimento del cinema d’autore italiano, qui alla sua terza regia d’opera.
Elegante, equilibrata e non struggente la direzione del maestro Roberto Abbado, il primo a riconoscere con entusiasmo la trascinante forza cinematografica del libretto dell’opera.
Allestimento tradizionale e molto coinvolgente per il pubblico romano che ha dimostrato di apprezzare un’opera forse nemmeno più così popolare riscoprendo una serie di affinità con la più celebre (e successiva) Tosca di Puccini, dall’intrigo politico-amoroso a certe scene affidate allo stesso librettista, Luigi Illica.
Vero però è che nello Chénier il quadro storico della Rivoluzione Francese sembra quasi voler inglobare la storia d’amore (con immancabile finale tragico degno del melodramma) che si consuma fra André Chénier, poeta francese realmente esistito e vittima della ghigliottina nel 1794 durante il Terrore a Parigi e Maddalena, contessa di Coigny caduta in disgrazia dopo la Rivoluzione. Fra loro spunta il servo (ex domestico) Gérard, per anni al servizio della famiglia Coigny, poi diventato figura di spicco della Rivoluzione.
Ad attirare l’attenzione di melomani e non è stata però la presenza di Bellocchio, poco avvezzo al mondo dell’opera: come annunciato, la sua regia (la terza dopo Pagliacci e Rigoletto) è stata discreta e molto rispettosa del libretto già di per sé dal naturale taglio cinematografico, ricco di colpi di scena e molto movimentato. Bellocchio rispetta la superiorità della musica su un’idea creativa di regia rimanendo quasi ossequioso nei confronti del libretto, illustrando i capovolgimenti drammaturgici e affidandosi a un sontuoso, ma non troppo, impianto scenico di carattere tradizionale minuziosamente ricostruito nei laboratori del Teatro dell’Opera.
Le scene e le luci di Gianni Carluccio ci catapultano nel lusso dell’Ancien Régime nel primo atto con gli interni di palazzo Coigny fra drappeggi, enormi lampadari e divani, grottesche sulle colonne e vista su ricercati giardini. Si passa poi alla Parigi rivoluzionaria, con sfondi della città, statue, dagli scranni pieni del Tribunale alla prigione ormai spoglia andando a denudare la scena e stringersi sulla dramma dei protagonisti.
Stessa evoluzione si scopre anche attraverso l’evoluzione dei costumi di Daria Calvelli, prima in perfetto Ancien Régime, fra abiti pomposi e parrucche vistose e futili e gli abiti in stile pre napoleonico e le coccarde rivoluzionarie mentre gli abiti dei protagonisti sembrano essere quasi sempre essenziali a concentrarsi sulla loro vicenda sentimentale.
L’intervento più consistente della regia, pedissequamente legata alla musica arriva nel finale quando dietro la coppia di amanti che si avviano alla ghigliottina al centro del palco spuntano un collage di foto (vittime?) simbolo delle rivoluzioni storiche del Novecento, ree, per sopravvivere di essersi macchiate a un certo momento inevitabilmente di sangue innocente. Ecco la lettura politica di Bellocchio che traghetta dal Settecento alla contemporaneità la storia e gli orrori umani delle rivoluzioni.
E se i personaggi di Giordano sembrano ricordare il trio di protagonisti della futura Tosca, non sembrano nemmeno così definiti: lo Chénier è rivoluzionario, ma non troppo, Maddalena, da viziata contessa aristocratica conosce la parabola discendente della vita cadendo in disgrazia, ma riscoprendo i sentimenti in un cammino opposto al domestico Gérard che diventa un pezzo grosso della Rivoluzione, ma che non è un villain a tutto tondo come Scarpia.
E nonostante i personaggi non siano indimenticabili forse (vedi Tosca pucciniana) i cantanti riescono a trascinare il pubblico soprattutto con la qualità delle loro interpretazioni e della loro voce: lode al tenore Gregory Kunde al debutto nel ruolo di Chénier, che strappa lunghi applausi del pubblico con una voce robusta anche nelle arie più struggenti e che gareggia con i toni del baritono Roberto Frontali – Gérard. Accanto a loro, Maria Josè Siri, una Maddalena di temperamento, anche lei in grado di suscitare applausi del pubblico soprattutto nelle romanze più toccanti e celebri.
Ma se i tre personaggi non sono del tutto definiti, è pur vero che l’opera di arricchisce del colore di una moltitudine di personaggi-comprimari che restituiscono varietà alla vicenda, dalla Bersi, la ex domestica-favolosa Natascha Petrinsky alla vecchia Madelon di Elena Zilio che scatena il plauso del pubblico al Mathieu, la spia, di Gevorg Hakobyan.
Il pubblico apprezza e applaude felice di riscoprire quella che fino a poco tempo fa veniva definita opera popolare, ma che forse in pochi in platea e in teatro (quasi sold out) avevano visto.