Portare un romanzo di grande valore sul palcoscenico o sullo schermo cinematografico rappresenta sempre una scommessa difficile; portare un romanzo di indubbia fama sul palco, dopo aver calcato con efficacia i set diretti nel 1986 da Jean-Jacques Annaud per l’interpretazione di Sean Connery, può risultare un’operazione ancora più audace e rischiosa. L’immancabile paragone con le forme artistiche precedenti de Il nome della rosa, le sue precedenti anime, avrebbe potuto farlo apparire verboso, attaccandosi troppo letteralmente al testo originale del romanzo datato 1980, senza tuttavia poter pretendere il dinamismo dei punti di vista del film, in considerazione degli ovvi limiti scenici del medium-teatro.
Il successo di pubblico e critica già registrato nei giorni del debutto al Teatro Carignano di Torino rende giustizia a una trasposizione teatrale che, attraverso il sapiente lavoro congiunto della teatralizzazione di Stefano Massini e della regia di Leo Muscato, si dimostra capace di mantenere la scena perennemente animata da attori e comparse, giochi di luce e ombra e proiezioni video distribuite su tutti i piani del palcoscenico. Il sipario stesso, nero e rigido, si presta da schermo per la proiezione di immagini, simboli e textures, alimentando un’atmosfera che può essere definita con ogni diritto “cinematografica”: è così che il suggestivo prologo, cupo e onirico, porta in scena lo scambio viceversa molto “testuale” tra il frate Guglielmo da Baskerville (Luca Lazzareschi) e il suo allievo Adso da Melk (Giovanni Anzaldo) dischiudendosi quindi sulla scenografia del monastero benedettino che ospiterà l’intera rappresentazione, uno scenario già pienamente intriso di inquietudine e mistero.
La terza anima de Il nome della rosa mostra il suo enorme impatto drammaturgico proprio qui, tra la verbosità di un romanzo e il ritmo serrato di un film. A fare da cerniera, in senso squisitamente teatrale, è la voce narrante in forma di ricordo di Adso, la cui figura incanutita interpretata da Luigi Diberti “incarna” il racconto, essendo niente più che il fantasma concreto di un’ulteriore spettatore affacciato sulla scena dei propri funesti ricordi. La diretta esposizione dei fatti che portarono alla soluzione dell’enigma imbastito da Eco nel romanzo, per voce di un testimone diretto, ammette la finzione teatrale, scongiurando quell’eccesso di verbosità che facilmente sarebbe scaturito da un’ambientazione in cui si mostrano gli affanni di un ordine monastico che deve la sua rovina alla dedizione per la copiatura dei manoscritti, e preservando al contempo la profondità di punti di vista montati cinematograficamente attraverso lo sguardo acuto e indagatore di Guglielmo, monaco in qualche modo iconoclasta per la sua tendenza poliziesca alla ricerca di significati nascosti in segni apparentemente arbitrari.
L’omaggio a Umberto Eco, scomparso lo scorso anno lasciandoci in eredità numerosi saggi sul significato sotteso dai segni, è dunque metatestuale: il suo romanzo faceva ampio riferimento al vizio insito nella molteplice interpretazione del testo alfabetico; il film ne ha enfatizzato l’analogia con il testo visivo; l’arte ben più antica del teatro ha saputo consacrarne l’insegnamento.
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Il nome della rosa
tratto da Umberto Eco
versione teatrale di Stefano Massini
regia e adattamento di Leo Muscato
con Eugenio Allegri, Giovanni Anzaldo, Giulio Baraldi, Renato Carpentieri, Luigi Diberti, Marco Gobetti, Luca Lazzareschi, Daniele Marmi, Mauro Parrinello, Alfonso Postiglione, Arianna Primavera, Franco Ravera, Marco Zannoni
scenografie di Margherita Palli
costumi di Silvia Aymonino
luci di Alessandro Verazzi
musiche di Daniele D’Angelo
video di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii