Che il romanzo di Pirandello possa essere considerato come una riflessione sul rapporto di un uomo con i libri, esasperandone la solitudine e portandolo a smarrire la sua identità nella finzione lettararia, potrebbe essere una “lettura” dell’opera forse troppo semplicistica, forse addirittura forzata.
La traduzione teatrale di Bruno Quaranta, tuttavia, palesa con grande evidenza scenica l’esito morboso di un simile rapporto: l’eccezionale interpretazione di Giovanni Mongiano, la cui mastodontica memoria sembra rievocare il testo del romanzo parola per parola, prende a raccontare la tragica vicenda di Mattia Pascal, cadenzando la narrazione a ritmo serrato mentre alle sue spalle vengono proiettati spezzoni dell’omonimo film muto del 1926, per la regia del francese Marcel L’Herbier e con Ivan Mozzhukhin nei panni di Mattia e Lois Moran in quelli di Adriana Paleari.
Le prime scene di uno spettacolo che nell’intento registico di Giulio Graglia vuole fungere da meta-omaggio a Pirandello – raccogliendone le opere derivate entro un unico, affascinante arazzo, evidenziano il dinamismo del film francese traendone le scene dell’episodio della roulette, in netto contrasto con la polverosa staticità della biblioteca di un Mattia Pascal che racconta la sua storia declinandola al passato. La scena dominata dai libri rende un senso di claustrofobia, pronunciato dalla scelta di avere un interprete unico sul palco – consentando a Mongiano di sfoggiare il proprio estro nel riempire la scena da solo, consentando a Mattia Pascal di esiliarsi e approfittare dell’equivoco sulla sua morte per sparire dalla circolazione e cominciare una nuova vita.
La trama è nota: la libertà di non possedere più un passato ingombrante, la libertà di guradare a un futuro modellabile come meglio si crede, è rinchiusa entro i limiti imposti dalla società. La libertà che Mattia si illude di aver ottenuto, attribuendosi il nome di Adriano Meis, è soltanto “proiettata” sullo schermo cinematografico alle spalle di un palcoscenico che, a voler ricordare quel passato ingombrante, rimane ammobigliato di scaffali ricolmi di libri; la necessità registica di mantenere la stessa scenografia per i novanta minuti circa di spettacolo diventa metafora scenica della solitudine, antitesi di libertà, come il pirandelliano “strappo nel cielo di carta” è metafora lettararia della disillusione rispetto alla finzione (incarnata nel romanzo dal personaggio di Anselmo Paleari).
Il Festival Pirandello organizzato da Teatro Stabile di Torino e Linguadoc, dedicato al centocinquantenario della nascita dell’autore, è anzitutto la celebrazione di uno dei più grandi scrittori italiani, il cui rapporto con il teatro non si limita all’aver firmato svariati copioni: la solitudine di Mattia Pascal si concretizza “teatralmente” nel romanzo con la sua resurrezione, in coincidenza con la morte del suo successore Adriano Meis. Come per i suoi lavori teatrali, i romanzi di Pirandello sono segnati dalla farsa (il contesto della vita che Mattia ha abbandonato non sembra disposto ad accettare la sua ricomparsa), rendendoli estremamente affini al meccanismo teatrale (Mattia sceglie dunque di esiliarsi nuovamente, rinchiudendosi nella biblioteca, come un attore che sceglie di restare sul palcoscenico).
Un romanzo che potrebbe apparire quindi come un trattato contro il teatro (solo per azzardare un’ulteriore lettura semplicistica e forzata) diventa abilmente uno spettacolo teatrale rivolto contro la fissità arbitraria della letteratura: il merito della riuscita dell’operazione congiunta di Quaranta e Graglia, del resto, va esteso a Pirandello stesso, che ci ha insegnato come la vita non possa essere ingabbiata nella parola.
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Il fu Mattia Pascal
Tratto da Luigi Pirandello
Adattamento teatrale di Bruno Quaranta
Regia di Giulio Graglia
Con Giovanni Mongiano