Straordinaria e affascinante la figura di Matteo Ricci (Macerata 1552 – Pechino 1610), gesuita con una preparazione non solo in teologia, ma anche in giurisprudenza (acquisita in tre anni di studi universitari prima di entrare nella Compagnia di Gesù), letteratura, matematica, geografia, cosmologia, cartografia che approfondisce sotto la guida del famoso scienziato tedesco Cristoforo Clavio (Christoph Clavius, responsabile dell’innovazione del calendario gregoriano) e naturalmente la cultura cinese. La studia in modo talmente profondo da renderlo, oltre a un eccezionale esempio di uomo rinascimentale, un antesignano del dialogo e dell’intermediazione tra civiltà e culture diverse e un esempio illuminato da seguire soprattutto oggi in cui tante parole si perdono in rivoli spesso improduttivi e le differenze (religioni, usi, costumi…) sono utilizzate a volte come pretesti per violenze inconcepibili in persone intelligenti e non esaltate.
Matteo Ricci è un fenomenale europeo la cui luce forse non avrebbe brillato con tanta intensità (da meritare il titolo di “Studioso confuciano del Grande Occidente”, da figurare ancora oggi tra i pochi stranieri presenti nell’Enciclopedia Culturale della Cina e da essere considerato tuttora un Maestro) se non avesse incontrato Xu Guangqi (Shanghai 1562 – Pechino 1633) – un cinese altrettanto fenomenale, mandarino confuciano di altissima levatura intellettuale e morale ed esperto in religione, matematica, astronomia, agricoltura, idraulica e in esercitazioni di guerra, nonché letterato e politico – con cui stringe un profondo sodalizio.
Costui, pur convertitosi al cattolicesimo con il nome di Paolo (‘dottor Paolo’ come è menzionato dai Gesuiti) senza peraltro rinnegare il confucianesimo perché convinto che il cristianesimo ne sia il compimento in quanto aggiunge alla dottrina confuciana ciò che le manca, ricopre le massime cariche presso l’impero cinese difendendo l’amico e la fede cattolica dagli attacchi xenofobi, facendosi tramite con l’Imperatore che concede il permesso di fondare una chiesa cattolica (la più grande della Cina, sopravvissuta pur se con difficoltà anche alla Rivoluzione Culturale maoista) a spese dell’erario e di fare seppellire Matteo Ricci nel giardino Hal a Pechino, primo non cinese a essere sepolto nella Città Proibita.
Ricci, animato da spirito missionario parte per Goa (base portoghese, sulla costa occidentale dell’India, da cui all’epoca partono le navi dirette in Cina) – dove ordinato sacerdote celebra nel 1580 la prima messa a Kochi – e salpa per la Cina nel 1582 raggiungendo Macao (base di partenza delle missioni dei gesuiti nella Cina Ming) dove secondo le direttive dei suoi superiori studia il cinese, fondamentale per essere ascoltato e per realizzare una vera intermediazione con i letterati e i mandarini, processo d’inculturazione ottenuto facendo stampare tra gli altri un piccolo catechismo in cinese, un dizionario portoghese-cinese e una parafrasi latina del testo confuciano Quattro libri.
Nei primi tempi si veste con abiti da bonzo poi sostituiti con quelli di seta dei letterati, si fa crescere barba e capelli, assume il nome cinese Li Madou o Li Ma Tou (che ricorda per assonanza il suo vero nome anche se al posto della r, che non esiste nell’alfabeto cinese, del cognome c’è la l) e vive alcuni anni con il confratello Michele Ruggieri (Spinazzola/Terre di Matera 1543 – Salerno 1607, personaggio di grande talento che diventa gesuita dopo essersi laureato in utroque iure, quindi formato in diritto civile e canonico) a Shao-ch’ng, nei pressi di Canton, dove nasce la meravigliosa amicizia con Xu Guangqi: insieme traducono testi basilari di entrambe le culture tra cui in cinese i primi sei libri di Euclide.
Impara dunque a fondo lingua, cultura, sistema sociale e per potere raggiungere il popolo (il corpo) conquista il vertice (la testa) della scala sociale (mandarini e imperatore) anche con orologi, prismi veneziani, mappamondi, mappe di città europee… non in cerca di benevolenza, ma per fare conoscere la cultura occidentale. Meno facile gli è fare accettare il Crocifisso incompatibile con l’idea di divinità propria dei cinesi.
Un’esistenza coraggiosa quella di Matteo Ricci che per la sua visione del confucianesimo incorre in critiche e sospetti da entrambe le parti, ma che ha incontrato un vero tesoro: l’amicizia di Xu Guangqi.
E oggi a emulare e continuare tale forte legame o meglio lo straordinario sodalizio che ha creato un solido ponte tra ovest ed est è l’accordo pluridecennale (ulteriormente sancito poche settimane fa da un reciproco impegno di formazione e produzione teatrale rinnovata e ampliata anche in virtù dei recenti ottimi rapporti istituzionali tra Italia e Cina) tra lo Shanghai Theatre Academy e il Piccolo Teatro di Milano – che per la filosofia posta in essere dalla sua Direzione tende a creare amicizie e sodalizi artistici – concretatosi questa volta nello splendido e affascinante lavoro di William H. Sun con cui Kuang Shen (regista residente della Shanghai Kun Opera Company) fornisce in dieci scene di notevole freschezza un ritratto affascinante del rapporto tra i due personaggi.
Lo spettacolo, prodotto dalla Shanghai Theatre Academy in lingua cinese (con sovra titoli in italiano), ricco di danza e acrobazie con 12 personaggi – narra romanzandolo un fatto reale raccontato da Matteo Ricci nei suoi diari (dove descrive aggressione e furto subiti) e immagina che dei tre ladri uno sia condannato a morte e che il gesuita interceda almeno due volte per salvargli la vita mentre un altro pentitosi divenga suo discepolo.
Attraverso il colorato e raffinato dipanarsi degli avvenimenti emergono le doti dei due Maestri (in abiti eleganti e dalla variegata cromia) rappresentati con deferenza, rispetto e ammirazione, con un porgere semplice, proprio in ogni terra degli spiriti più nobili e sapienti, e con grande considerazione per l’eccezionale capacità mnemonica di Ricci.
Molto ben riuscito anche il personaggio della madre di uno dei ladri, toccante figura ricca di femminilità discreta eppure certa nel palesare i suoi sentimenti di madre e di donna in uno spettacolo dal fascino contagioso di una cultura diversa che dipinge un occidentale che ha capito e rispettato l’Oriente.
La Shanghai Theatre Academy ha coniugato con ottimi risultati innovazione e tradizione inserendo un testo odierno negli schemi espressivi di un genere (non esistente ai tempi di Ricci) tipico della tradizione cinese, l’Opera di Pechino, di cui utilizza tecniche, stilemi e personaggi definiti.
Una pièce che varrebbe la pena rivedere.