Una donna forte, volitiva e ai margini della società pronta a tutto pur di non perdere la propria libertà: è una Carmen particolarmente femminista quella ripensata da Valentina Carrasco alla regia (scuola Fura dels Baus, già a Roma con il Trovatore e la Proserpina di Rihm) del nuovo allestimento dell’opera di Bizet che ha aperto la stagione estiva alle Terme di Caracalla di Roma.
Anni luce distante dall’ultima Carmen del 2009 vista nella stagione estiva del Teatro dell’Opera di Roma, la Carrasco colloca non in Spagna (anche per non incorrere nel confronto con importanti precedenti evidentemente), ma in Messico, o meglio proprio nella frontiera tra i due paesi l’opera portando avanti un’idea che resta coerente dall’inizio alla fine dove l’emarginazione e la volontà di riscatto fanno da sfondo alla travolgente e tragica storia d’amore fra Carmen e Don Josè.
In un’ottica del genere gli zingari di Bizet, emarginati dalla società, vengono trasformati in contrabbandieri in bilico fra legalità e criminalità e la speranza di un futuro migliore oltre il muro (ritornato alla ribalta nell’era Trump) e se qualcuno viene riconsegnato alla famiglia per il riconoscimento, altri cercano di arrangiarsi come possono, fra contrabbando e mercificazione del sesso.
E Carmen, fulcro della storia, usa tutta la sua sensualità e la sua sessualità (anche piuttosto esplicitamente in alcuni momenti) e la sua forza per emergere e prendersi ciò che vuole. Amanti in primis anche nella rielaborazione della Carrasco che ha voluto creare una sorta di parallelo fra la figura della sigaraia e il Don Giovanni di Mozart, diversissimi anche da un punto di vista sociale, ma pronti alla morte per difendere la propria libertà.
Resta evidente l’omaggio caloroso alla cultura messicana che la Carrasco dipinge con ammirazione anche se il tutto viene sfiorato da qualche inevitabile cliché (le immagini religiose, le feste di paese, le luci e le simbologie) senza risparmiarsi neppure qualche tocco un po’ kitsch soprattutto nel secondo atto quando la locanda si trasforma in una sorta di night club con ragazze (e non solo) in vendita, ballerine di lap dance (poco sensuali) e un vistosissimo abito di paillettes rosse di Carmen.
Ma è il senso della morte a incombere pericolosamente sull’opera e dall’inizio alla fine, attraverso la figura della bambina che si avvicina a Carmen in tutti i momenti in cui si trova in pericolo (fino alla morte effettiva), materializzandosi nella danza macabra finale con gli scheletri (un po’ Regola del gioco di Renoir) nel corso della Dia de muertos, importante festa tradizionale del Messico che unisce le celebrazioni della morte delle antiche civiltà con la ricorrenza cristiana del giorno di tutti i santi e che diventa l’apoteosi dell’opera sostituendo la tradizionale sfilata della corrida.
Anche nella scena finale, satura di personaggi e proiezioni di inquietanti figure religiose, la Carrasco è voluta intervenire affiancando alle contaminazioni folkloristiche con la bellezza delle decorazioni e degli altari floreali, i carri da sfilata e i costumi colorati di Luis Carvalho, una sorta di raddoppio della morte: in alto, la cruenta decapitazione del toro (di paillettes dorate), in basso il sacrificio di Carmen che si offre coscientemente al suo carnefice. L’immagine tormentata della società messicana viene arricchita anche dalla reinterpretazione dei personaggi principali arricchita dalla recitazione dei cantanti: la Carmen di Veronica Simeoni è discinta e sensuale, ma soprattutto volitiva e sicura di sé stessa fin dall’Habanera al sacrificio finale, elegante e di classe nel canto e nel fraseggio.
Il don José di Roberto Aronica diventa una guardia di frontiera soprattutto violenta, ma di una violenza quasi repressa e brutale, ben sostenuto dalla voce; ottima la Micaela di Rosa Feola in stivali da cow girl ben che restituisce un personaggio ben più coraggioso di come viene solitamente tratteggiato.
Interessante la bella continuità che la Carrasco è riuscita a far emergere fra i paesaggi andalusi e quelli messicani (scene di Samal Blak) con qualche trovata alla Rodriguez e le immancabili proiezioni sulle torri delle Terme che evocano il deserto e la frontiera, è notevole la capacità della regista di armonizzare i molti figuranti nelle scene sempre affollate.
Disinvolto il Coro diretto dal maestro Roberto Gabbiani, la direzione del maestro argentino Jesús López-Cobos (in pratica al debutto nei concerti all’aperto) resta sempre raffinatamente composta e mai travolgente.
Si replica, con un doppio cast, ancora il 20, 27, 30 luglio e il 1 e il 4 agosto e con la direzione musicale di Jordi Bernàcer, in alternanza con le altre due opere in cartellone nel programma estivo delle Terme di Caracalla, la Tosca con la regia di Pizzi e il Nabucco di Grazzini. Info su www.operaroma.it