Nel provare un po’ di invidia per chi, arrivato in Sala Grande del Circolo dei Lettori di Torino prima di me, ha già preso posto sulle poche sedie disposte intorno al palco, mi sono rimproverato un pensiero infantile. Mi siedo per terra e aspetto l’inizio dello spettacolo, come un bambino sarebbe apparso logico: io, recensore, io, adulto, io per terra come un bambino, mi domando se un bambino avrebbe provato lo stesso moto di invidia per le sedie occupate.
Il gruppo di attori del Workcenter di Jerzy Grotowsky e Thomas Richards capitanato da Mario Biagini non ha bisogno di un sipario, il palco è definito dal contorno degli spettatori, degli sguardi esterni; gli attori non arrivano dalle quinte ma si presentano e chiacchierano con il pubblico prima dello spettacolo; nessun sipario si alza, nessun attore compare compare sulla scena.
A innalzarsi sono le voci unite in canto, a riempire la scena è la pienezza scenica del Workcenter. Prima di questo momento niente era ciò che sembrava: né il palco, un anonimo pavimento in parquet, né i variopinti figuranti che si distinguevano dagli spettatori a malapena, ora rivelatisi abili danzatori e cantanti. Neppure un buon numero di spettatori si accontenta del ruolo passivo sugli “spalti”, unendosi alla rappresentazione battendo mani e piedi, poi cantando e ballando. Io, bambino, travolto dalla performance.
Non è facile recensire uno spettacolo del Workcenter. Sarebbe indubbiamente più facile ed opportuno trasmettere l’esperienza per iscritto, se solo il linguaggio goffo e inadeguato del testo scritto ne fosse in grado. Gli spettatori che si sono gettati sul palco lasciandosi immediatamente coinvolgere dallo spettacolo non potranno raccontarne l’esperienza a parole: niente continua a essere ciò che sembra, evidentemente, lo spettacolo stesso ha in effetti le sembianze di un rito, una celebrazione.
Abbandonata la pretesa (infantile?) di assistere a uno spettacolo, rimane comunque possibile destrutturare il “rito” in una sequenza fondamentale e reiterata: all’assolo di uno degli attore, a introduzione di un nuovo episodio, risponde il coro di tutti gli altri, secondo uno schema universale che evoca epoche, continenti e culture. Ma l’impulso dell’io adulto – io analitico recensore – di riconoscerle ed enumerarle svanisce presto, sopraffatto dalla gioia dell’io bambino, avvinto, estasiato, piacevolmente sconvolto dalla Babele che crolla e si riscostruisce in continuazione.