Andrea Adriatico porta in scena “A porte chiuse” l’opera più celebre di Jean Paul Sarte, che il padre dell’esistenzialismo compose nel 1944, in pieno periodo bellico. La puntualizzazione cronologica intende mettere in rilievo certi dettagli fatalmente “datati” del testo di Sartre, che d’altra parte poggia drammaturgicamente su leve assolutamente universali, come il senso di colpa e la colpa tout court, talmente incontestabile quest’ultima da poter esser poi prestata -all’interno del dialogo- al gioco patetico delle giustificazioni e delle negazioni, prima della definitiva punizione.
E’ forse per questo insieme complesso di fattori che la regia di Adriatico parte da un’operazione drammaturgica, una rielaborazione del testo volta ad avvicinare i tre personaggi sartriani a connotazioni fortemente attuali, partecipi del nostro comune sentire. I tre anti-eroi che lo spettatore si trova davanti hanno nomi e cognomi italianissimi e storie altrettanto riconoscibili, e se questo riconoscimento non combacia esattamente con la nostra prassi quotidiana più genuinamente tangibile, ciò avviene in quella bolla di “realtà aumentata” che ognuno di noi esperisce attraverso il racconto mediatico dei fatti di cronaca.
Difficile dire se questa operazione sia integralmente riuscita in termini artistici, ma di certo colpisce la decisione con cui viene maneggiato un materiale che potrebbe incutere timori reverenziali, sicuramente penalizzanti sul piano della creatività di cui necessita una messinscena. Adriatico esalta il portato grottesco e persino la verve brillante che è effettivamente contenuta nelle porosità di un testo così “sacrale”, ricordato e celebrato principalmente in virtù del suo portato filosofico. Si instaura allora quella sorta di affinità elettiva tra testo e regia che innesca un concerto di ritmi e di ideazione energica, corrosiva, continuamente sospesa sul filo dell’eccesso, che raggiunge un primo innegabile risultato: lo spettacolo possiede un suo disegno completo e complessivo, che congiunge e raccorda assieme tutte le sue componenti.
Lo si coglie già dalla primissima “istantanea”: la scena si presenta come un cubo ermeticamente chiuso, aperto -naturalmente- sul lato più vicino perché sia attinto dal nostro sguardo. Sì perché c’è al fondo del testo di Sarte una sorprendente elementarità di forma, quasi una sua ingenuità teatrale che ne rende geometricamente schematica la struttura e prevedibile la fruizione, tanto da rendere effettivamente comprensibile un suo trattamento forte in termini di regia. La nettezza del bianco e nero dominante sottolinea quasi questa classicità di fondo, che però nello spettacolo serve come pura partenza, come una tela immacolata che ci si appresta a macchiare con animosità liberatoria. Ecco che subentra la luce – acre, invadente più che chiara – … poi arriva il colore, minimale, nella misura data dalla presenza di pochi accessori di scena, essenziali, anzi contati. E naturalmente la musica, linguaggio sempre investito di funzione drammaturgica da Adriatico, ma in ciò sempre palatale, popolare, ballabile, lontana da ogni astratta perfezione.
In questo disegno, la scena deve dominarci, schiacciarci o meglio renderci lontano e sfalsato il binario sospeso su cui si muovono i tre personaggi. Sartre – come si sa – intendeva rappresentare dissacratamente e laicamente l’inferno, nelle forme anonime di un non-luogo (una rarefatta stanza d’albergo) in cui tre defunti si trovano a pagare le proprie colpe continuando a vivere. Nella messinscena di Adriatico la stanza tende a negarsi allo sguardo, fugge, si riduce spesso a linea, oltre la quale i personaggi si mostrano solo in sezioni corporee frustranti, per poi esplodere visivamente a sorpresa, come una “camera ottica” spettacolarizzante fin lì nascosta e compressa, quando la vista dei personaggi inforca un cambio di direzione e si apre sulla vita terrestre che continua senza di loro.
Questo gioco di sguardi tra dimensioni dell’io fa capolino in realtà tra le maglie dominanti del teatro di parola. Gianluca Enria, Teresa Ludovico e Francesca Mazza reggono con abilità la situazione scenica, componendo continui quadri dotati di una ludica finezza, che Leonardo Bianconi completa di una recitazione nervosa e vezzosa, capace allo stesso tempo di agire sopra e sotto le righe.
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CREDITS
“A PORTE CHIUSE – Dentro l’anima che cuoce”
ispirato a Jean Paul Sartre
con Gianluca Enria, Teresa Ludovico, Francesca Mazza e con Leonardo Bianconi
Drammaturgia di Andrea Adriatico e Stefano Casi
con l’amichevole partecipazione di Angela Malfitano e Leonardo Ventura
Cura: Daniela Cotti, Alberto Sarti, Saverio Peschechera e Giulia Generali, Laura Grazioli
Scene e costumi: Andrea Barberini
Tecnica: Salvatore Pulpito
Supporto tecnico: I fiori di Marisa, Lady Rose
Produzione: Teatri di Vita, Akròama T.L.S., con la collaborazione di Teatri di Bari, con il sostegno di Comune di Bologna – Settore Cultura, Regione Emilia-Romagna – Servizio Cultura, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
Florian Metateatro (Centro di Produzione Teatrale)
Stagione 2017-18 “Teatro d’Autore e altri Linguaggi” / “L’Europa è qui”