Dioniso e Penteo di Teatro del Lemming è uno di quegli spettacoli che si offre in maniera quasi inevitabile alla riflessione colta, come d’altronde accade spesso ai lavori realizzati dalla storica compagnia di Rovigo, che festeggia i trent’anni di attività proprio in questa stagione. Ed allora, è forse lecito provare a rintracciare l’ombra di un disegno più profondo, più specifico, carico di significati identitari alla base di questa proposta che viene a cadere in occasione di un anniversario così “tondo”, dato che Dioniso e Penteo vuole essere una riflessione totale sul teatro nel suo essere e nel suo farsi, come testimonia il sottotitolo (“Tragedia del teatro”). Perché – come si accennava – non è cosa nuova per il Lemming affrontare un progetto che agisca sul nostro senso del tempo ed il nostro sistema di percezioni, trasformando la prassi dello spettacolo in un rito personale e collettivo (si pensi agli spettacoli per spettatore unico, ma anche ai laboratori sensoriali per attori), così come non è nuovo il ricorso alla drammaturgia classica, ed ancor più alle tonalità del tragico. Insomma, gli ingredienti ci sono tutti per cedere alla tentazione, quasi all’obbligo di instaurare una meditazione “scolastica” – prima anche che colta – attorno ad un linguaggio teatrale che si chiude autonomamente negli spazi angusti di un’arte minore, lenta ed obsoleta, ripiegata su modalità che nel presente appaiono abbondantemente (o irresistibilmente) superate, se non proprio irrimediabilmente perdute.
In verità, il Dioniso e Penteo concepito e diretto da Massimo Munaro supera agilmente un tale sistema di attese, creato lungo decadi di autocompiacimento ed autolesionismo da tanto teatro italiano ufficiale, in una fase come quella attuale in cui persino il nostro teatro off o emergente (si pensi agli ultimi Premi Scenario) tende a mostrare segni di stanchezza e ripetitività macchinale, pur sotto i riflessi della brillantezza, della carica o dell’irriverenza young. Ma lo spettacolo del Lemming sorprende e scuote al di là dei fattori contingenti, secondo una ricetta spietatamente infallibile per il teatro in epoca contemporanea: raggiunge con forza le viscere dello spettatore, oppure gli resta distante, ne sfiora appena la vista pur essendo lì davanti, fisicamente inconfutabile (ma “solo” fisicamente). Ecco perché Dioniso e Penteo è uno spettacolo che precede ogni trattazione razionale ed ogni atteggiamento colto: perché riesce a focalizzarsi sui misteri che attengono al teatro, a mantenersi al di qua della certezza e dell’affermazione, per incarnare quella zona di ombra buia purissima. Riesce ovvero là dove il teatro spesso fallisce, smarrendosi a metà strada, alla ricerca di sé stesso o del consenso.
Rivendicare il rinnovamento dello spettacolo come format attraverso la rinnovata relazione con lo spettatore è un atto facile quanto diffuso, semplicemente per il fatto che buona parte degli operatori teatrali stabilmente affermati si è anagraficamente formata sulla lezione di Grotowski, ed anche chi non ne ha sposato nominalmente i principi ne ha recepito gli storici punti di non ritorno. Ben più raro e difficile è superare lo stadio della enunciazione, per trasformare ogni astrazione teorica in segno, azione, suggestione sensoriale che tagli lo spazio scenico.
In Dioniso e Penteo accade proprio questo, pur partendo da una schematicità rigida, finanche cifrata, che lascerebbe immaginare il contrario: sette repliche al giorno, per gruppi di sette spettatori. In realtà, ogni riferimento puntuale al mito ed ogni regolamentazione formale sul ruolo dello spettatore decade all’istante una volta varcato il confine con la scena, per instaurare un meccanismo assolutamente naturale ed essenzialmente teatrale: lo sguardo è catturato da un quadro rigoroso, carico di potenza visiva in ciò che è fermo come in ciò che in esso si agita. L’udito viene carpito subito dopo tramite il registro del sussurro, in cui la suggestione della parola si fonde con quella della pura sonorità. Contenuto e messaggio si porgono e si ritraggono di continuo, restano appena schiusi sulla soglia del dicibile (superando di slancio la stucchevole dimensione del “non detto”), se ne percepisce soltanto il rumore che descrive una vitale macerazione, una carnale trasformazione in fieri. Inizia così -senza forzature preconcette o formalistiche- un viaggio di mutazioni in cui lo spettatore è partecipe diretto non più di quanto venga passivamente agìto dall’attore. Ma l’evento più significativo è che lo spettacolo rinuncia da un certo punto in poi alla sua dimensione unitaria, si infrange e si disperde nei tasselli dell’esperienza individuale del singolo spettatore.
Da segnalare la prova degli interpreti in scena, tutti mossi dal fuoco di un carisma lontano dalla teatralità posticcia (quasi uno stato di trance!) che lascia presagire un lavoro lento, denso e faticoso, unitamente ad una regia ispirata, fondata organicamente sul dialogo con gli attori. Notevole.
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CREDITS
“DIONISO E PENTEO (Tragedia del Teatro)”
di Teatro del Lemming
con: Fiorella Tommasini, Alessio Papa, Boris Ventura, Marina Carluccio, Pietro Rudi De Amicis, Katia Raguso, Silvia Massicci, Elena Fioretti, Diana Ferrantini
regia e musiche: Massimo Munaro
collaborazione drammaturgica: Roberto Domeneghetti
elementi scenici: Ulrico Schettini, Martino Ferrari
produzione: Teatro del Lemming (Rovigo)