di Luigi Pirandello
adattamento di Carlo Cecchi
scene di Sergio Tramonti
costumi di Nanà Cecchi
luci Camilla Piccioni
regia di Carlo Cecchi
assistente alla regia Dario Iubatti
assistente alle scene Sandra Viktoria Muller
con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Trifirò, Federico Brugnone, Davide Giordano, Dario Iubatti, Matteo Lai, Chiara Mancuso, Remo Stella
direttore tecnico allestimento Roberto Bivona
macchinisti Edoardo Romagnoli, Frederic Lançon
fonico Giovanni Grasso
amministratore di compagnia Francesca Leone
direttore di produzione Marta Morico
produzione, organizzazione Alessandro Gaggiotti
assistente di produzione Claudia Meloncelli
comunicazione e ufficio stampa Beatrice Giongo
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Alla sua terza esperienza con Pirandello e alla nona produzione con Marche Teatro, Cecchi ha debuttato in prima nazionale nel ruolo di Enrico IV nell’omonima commedia, da lui interpretata e diretta. Subito si nota come la drammaturgia sia stata adattata con riduzione di testo, limature lessicali e unificazione dei tre atti, per darci una rappresentazione che dura poco più di un ora e trenta.
Cecchi, tuttavia, affrontato l’animo del testo con il rispetto che gli si deve in quanto manifesto della poetica pirandelliana e pietra miliare della drammaturgia italiana, fa sue le pieghe dell’inquietudine e non smentisce l’ironia, o meglio l’umorismo, che infettano tutta la piéce.
Il regista moltiplica il concetto di doppiezza e lo ripiega nella riflessione personale e meta-teatrale dell’attore che si trova ad interpretare un testo e vuole farlo proprio modificandolo. Così i piani interpretativi aumentano e si fondono tra loro. Solo l’espediente registico del servitore Ordulfo, lo straordinario Dario Iubatti, che è anche “censore della drammaturgia” che corregge e il protagonista e l’attore, ci orienta tra il testo originale e il nuovo.
Il Maestro ha voluto ibridare il testo con nuove parti e restituire l’ambiguità e la somiglianza tra il teatro e la pazzia – che in realtà è alienazione, cosciente e amletica finzione che nasconde il distacco voluttuoso e salvifico da una macera realtà – giustapponendo le idee della pazzia come via di fuga, pazzia come prigione, teatro come percorso di libertà e teatro come ingabbiamento in una maschera.
Rappresentazione e finzione si mescolano dapprima nella scelta registica e scenografica di presentare il dietro le quinte della scena, un luogo che si palesa realisticamente per ciò che è ma che, allo stesso tempo, ospita gli attori che provano la parte da tenere con Enrico IV, ma si riferiscono a dinamiche contemporanee sul mondo attoriale – giovani diplomati alla Silvio D’amico che si trovano a dover ricoprire ruoli dappoco – tirandosi fuori completamente dal testo originale- in una sottesa sfumatura tra parti da interpretare in scena e nella vita reale.
Cecchi, che si conferma come interprete abile e profondo anche se a tratti novecentesco, è letteralmente attorniato da interpreti di spessore, che lo esaltano e lo sostengono, rendendo fluida e spassosa la narrazione di una vicenda intricata e cupa.
La comunione di intenti tra Pirandello, Enrico IV e Carlo Cecchi è rappresentata da quest’ultimo con il suo stile istrionico e raffinato, restituendo con la sua regia la consapevolezza del testo e con la sua interpretazione la verità umana – fatta di guizzi e defaillance – della rappresentazione.