Emanuele Burrafato, danzatore, coreografo e scrittore, laureato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma, ha danzato nei corpi di ballo del Teatro San Carlo di Napoli, dell’Arena di Verona, del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Trieste e nelle compagnie Aterballetto, Danzare la vita di Elsa Piperno, Aton Dino Verga Danza, Astra Roma Ballet. Come primo ballerino, tra gli altri, ha danzato nel “Pinocchio” di Fabrizio Monteverde, al Teatro Regio di Torino, nel “Concilio dei pianeti” di Tommaso Albinoni per la Celebrazione del cinquantennale dei “Solisti Veneti” con la regia di Stefano Poda, e per la compagnia di “Susanna Egri” a Torino. Nel 2013 ha pubblicato per la Casa Editrice Gremese la biografia dell’étoile Elisabetta Terabust, intitolata “Elisabetta Terabust, l’assillo della perfezione” e nel 2016, sempre per Gremese, il volume “Luciana Savignano, l’eleganza interiore”.
Emanuele, con la danza è stato subito “amore a prima vista”?
Sì, credo proprio di sì, e quest’amore è scoccato al saggio di danza di una cuginetta. In quel momento non c’era consapevolezza, ero troppo piccolo, però quelle suggestioni mi sono rimaste impresse e sono diventato da subito ossessivo nei confronti della danza.
Quali sono i tuoi primi ricordi legati al mondo del balletto e del teatro?
I primi ricordi legati al balletto sono quelli di “Maratona d’Estate”, la rassegna ideata da Vittoria Ottolenghi, che andava in onda su Rai Uno il sabato all’ora di pranzo. Una trasmissione che merita di essere ricordata perché provocò un ampliamento notevole del numero degli appassionati di balletto in Italia. Grazie a quell’operazione nelle case degli italiani arrivarono i lavori di Balanchine, di Alvin Ailey, di Pina Bausch, di Roland Petit e di tanti altri importanti coreografi. Dispiace che oggi manchino appuntamenti del genere, sarebbe un grosso passo per cercare di uscire dalla crisi in cui versa la danza nel nostro paese. Altri ricordi poi, forse più leggeri ma non meno importanti come stimolo, sono quelli legati al balletto televisivo, soprattutto al personaggio di Heather Parisi.
Mi racconti del periodo della tua formazione, le difficoltà, i maestri, i primi eventi in palcoscenico?
I miei genitori erano assolutamente contrari a questa scelta, hanno cercato di distogliermi e di scoraggiarmi in tutti i modi, fino a proibirmi di frequentare la scuola di danza in cui mi ero iscritto nella mia città. Per loro avrei dovuto studiare, laurearmi e seguire le loro orme. Si può dire quindi che i miei veri inizi siano stati a Roma, dove mi ero trasferito per frequentare l’Università. Da una parte è stato un male perché lo studio della danza deve essere intrapreso da piccoli, dall’altra un bene, perché dove mi trovavo forse non c’erano le condizioni necessarie per una corretta formazione. Arrivato a Roma ho avuto la fortuna di incontrare un’insegnante americana, Michele Ellis, che ha creduto in me: era convinta che potessi farcela nonostante avessi iniziato così tardi; una fortuna fu poi l’aver frequentato il Corso di Perfezionamento della compagnia Aterballetto a Reggio Emilia, sotto la direzione di Amedeo Amodio. Ero ancora inesperto e mi ritrovavo al fianco di ragazzi della mia stessa età ma già diplomati alla scuola della Scala, o del San Carlo. Amedeo mi disse: “Non hai la preparazione necessaria, ma ti prendo perché sei musicale e mi piace il tuo movimento”. Mi ritrovai all’interno di un ambiente stimolante, seguito da insegnanti qualificati e circondato da bravissimi ballerini; l’Aterballetto era la migliore compagnia in Italia, al di fuori degli Enti Lirici. Alla fine del corso entrai in compagnia, da lì iniziò la mia carriera.
Mentre la passione per la scrittura com’è maturata in te? Hai sempre desiderato fare lo scrittore?
Mi è sempre piaciuto scrivere e ho avuto una buona formazione umanistica: ho frequentato il liceo classico e poi la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza, ma desiderato fare lo scrittore no. Tutte le mie energie, il mio impegno e i miei sacrifici sono sempre stati dedicati alla danza. Si tratta di una cosa nata per caso, che considero uno sviluppo naturale della mia professione e del mio percorso di studi, e che mi ha permesso di ritrovare piaceri che appartenevano a un altro periodo.
Come sei arrivato a pensare alla pubblicazione del libro dedicato ad Elisabetta Terabust “L’assillo della perfezione”?
L’esperienza con Elisabetta Terabust, che è stata la mia direttrice al Teatro San Carlo di Napoli, è una delle più importanti della mia carriera. Passione, competenza e professionalità sono i tratti distintivi di questa grande ballerina, che è stata anche una direttrice seria e appassionata e un’eccellente pedagoga. La considero una figura unica nel panorama della danza italiana. Come tesi di laurea decisi quindi di compilare una sua monografia, e lì mi resi conto di quante poche informazioni, e spesso non corrette, circolavano su di lei. Vista la mole di ricerche che stavo compiendo e il materiale che stavo recuperando sia in Italia che all’estero, mi venne in mente che avrei potuto pubblicare io qualcosa su di lei, raccontare la sua carriera e mettere in evidenza i motivi per cui a mio avviso questo personaggio è così rilevante. Proposi il mio progetto all’editore, che si dimostrò subito interessato e iniziai a intervistarla; grazie a lei è iniziato questo mio nuovo e stimolante percorso.
A tuo avviso, oltre alla splendida carriera di étoile e direttrice, cosa rende speciale la Signora Terabust?
Elisabetta Terabust è una donna onesta e generosa. Che bello poter usare questi aggettivi per descrivere una persona. La stesura del libro ci ha unito moltissimo e adesso è una delle mie amiche più care. Lei mi chiama “il mio biografo” e a chiunque le chieda di rilasciare interviste o informazioni sulla sua carriera, dice sempre “Chiamate Emanuele, ormai ne sa più lui di me”.
Per chi non lo avesse letto, il lettore scorrendo le pagine del volume cosa trova di inedito sulla Terabust?
Trova innanzitutto un’accurata ricostruzione storica della sua carriera, che fino ad oggi mancava, e poi l’originale operazione di sintesi da lei attuata sulle varie tecniche di balletto affrontate nel suo percorso. Sintesi che riflette e che la accomuna alla posizione di personaggi come Nureyev o Poliakov, e che la Terabust ha sempre cercato di divulgare nei vent’anni in cui è stata direttore dei più grandi teatri italiani. Questo secondo me è un aspetto molto importante per tutto ciò che riguarda gli studi sulla “trasmissione” e sull’evoluzione della tecnica accademica. Ovviamente si raccontano poi gli episodi della sua vita, i suoi amori, e a volte anche vicende intime e dolorose. La Terabust ha dedicato tutta la sua vita alla danza, questo libro è la storia di una grande passione.
Poi a distanza di tre anni è arrivato il secondo libro volume tersicoreo dedicato a Luciana Savignano “L’eleganza interiore”. Anche in questo caso come è nato e perché proprio Luciana?
Visti i riscontri positivi del mio esordio, Gremese mi ha proposto di continuare la collaborazione. Ho allora chiarito bene il mio progetto: volevo illustrare i percorsi di alcuni dei personaggi più importanti della danza italiana, ballerini, coreografi, direttori di compagnia, artisti che hanno contribuito in modo personale ad
agevolare le modalità di rinnovamento della cultura coreutica italiana. Personalità che non si sono distinte solo per i loro meriti artistici, ma per avere intrattenuto rapporti importanti con la cultura internazionale e contribuito quindi a un aggiornamento non solo del repertorio, ma anche della sensibilità, del gusto e della conoscenza del pubblico italiano, oltre che un ampio ritorno di interesse di quest’ultimo nei confronti del balletto. La Savignano ha avuto una collaborazione molto importante con Maurice Béjart, molti dei lavori di questo coreografo sono noti in Italia grazie alle sue interpretazioni e la sua personale ricerca d’interprete ha contribuito indirettamente a un significativo ampliamento del repertorio del Teatro alla Scala. Ci sono poi anche motivi personali in questa scelta, avevo danzato con lei nel “Bolero” di Béjart all’Aterballetto e l’avevo apprezzata sia come artista che come persona. Non riesco a cimentarmi in un’operazione complessa come la stesura di un libro se non sono affascinato dal personaggio che devo descrivere.
Qual è stato il lavoro di ricerca e di memoria, tenendo conto della carriera di Luciana così ricca e piena di eventi, da cosa siete partiti e cosa avete privilegiato come aspetto artistico e privato?
Inizialmente Luciana non voleva un libro che ricostruisse la sua carriera, pensava che un’impostazione del genere non corrispondesse alla sua personalità. Io invece sono un amante della ricerca storica e insistevo sull’utilità e sul valore di tale operazione. Alla fine si è fidata ed è stata d’accordo con me. Mi sono quindi dedicato prima alla ricerca, utilizzando fonti tratte dagli archivi dei principali teatri italiani e da archivi privati e solo in seguito ho iniziato ad intervistarla. Lei ci teneva a dare un ritratto il più fedele possibile alla sua personalità ma nello stesso tempo, essendo molto riservata, è stato difficile farla parlare. Dopo che si è instaurata la fiducia però le tensioni si son sciolte ed è nata anche una bella amicizia.
Oltre all’artista quali sono i più grandi meriti di Luciana?
Luciana è una persona che ha rispetto per gli altri, oggi il rispetto è qualcosa di raro.
Nel corso della tua carriera, qual è stata la molla che, di volta in volta, ti ha spinto a realizzarti in ambiti tra loro diversi? Danzatore, coreografo, la laurea in lettere e filosofia, scrittore?
La molla è sempre la stessa, la passione. Senza passione o entusiasmo purtroppo non sono capace di fare niente di buono.
Qual è il momento della tua carriera in cui ti sei sentito maggiormente realizzato in scena?
Ci sono stati parecchi momenti per fortuna. Alcuni sono legati alla Terabust e al periodo trascorso al San Carlo, lì ho danzato in dei bellissimi lavori del repertorio classico e moderno e tutti noi del corpo di ballo eravamo seguiti da un’équipe di altissima qualità. Ho amato il lavoro teatrale fatto con Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, all’inizio della mia carriera, e ho vissuto un momento magico grazie alla coreografa Sarah Taylor nello spettacolo “Divercity”. Era uno spettacolo prodotto in collaborazione con l’Istituto di Igiene Mentale di Trieste, in cui nove danzatori del Teatro Verdi di Trieste danzavano, cantavano e recitavano insieme a nove pazienti dell’Istituto. I testi di Laing indagavano e interrogavano il concetto di diversità, l’intento era di aiutare queste persone con terapie alternative alla medicina tradizionale. Io ho sempre pensato che fossero più loro ad aiutare noi. È un’esperienza che mi ha commosso e cambiato.
Che immagine hai di te stesso danzatore?
Sono un danzatore di formazione classica che ha lavorato principalmente nei corpi di ballo e quindi danzato in balletti di repertorio, di Balanchine o di coreografi come Petit e Béjart, ma ho sempre preferito la danza moderna e contemporanea di cui ho fatto parecchie esperienze, che vanno da Elsa Piperno a Michele Abbondanza e Antonella Bertoni. Ho cercato di mettermi alla prova in discipline diverse, stimolato dalla maniera differente in cui il mio corpo rispondeva a questi stimoli.
Quanto è importante, oggi come oggi, la necessità da parte delle giovani leve di avvicinarsi alla storia di étoile come Terabust e Savignano?
È importante per diversi motivi, soprattutto per le scelte che queste due donne hanno fatto dal punto di vista stilistico e interpretativo, ed è importante per i giovani avere dei modelli, non da imitare ma di riferimento.
Un tuo ricordo legato al Teatro San Carlo di Napoli?
A me piace ricordare gli episodi divertenti: Roland Petit che passeggia temerario per i quartieri spagnoli carico di buste ricolme di acquisti preziosi, la Terabust che per arrivare a casa, a quattrocento metri dal teatro, chiama sempre il taxi, e la signora dell’ufficio personale che alla mia richiesta di un duplicato di un certificato mi risponde: “Signor Burrafato ma questo per me è doppio lavoro”.
Mentre all’Arena di Verona?
Una recita di “Rigoletto” durante il Festival Areniano, in cui un mio collega, scivolando, ha trascinato con sé per terra tutti gli altri ballerini che stavano sul palcoscenico, facendoli cadere uno alla volta, come in un domino.
Cosa ha significato accostarti ad una realtà come Aterballetto durante la carriera di danzatore?
È stato molto importante perché è importante quello che ha fatto Amodio all’Aterballetto. Ha portato in Italia titoli e coreografi allora mai visti, ha collaborato con rilevanti musicisti e scenografi, e ha creato dal nulla una compagnia di altissima qualità che ha ottenuto riscontri e riconoscimenti in tutto il mondo.
Per la giornata internazionale della danza, sei stato in Vaticano ricevuto insieme ad alcuni personaggi del mondo coreutico italiano, dal Santo Padre. Che emozioni avete vissuto e quali parole ha rivolto Papa Francesco all’arte della danza?
Credo che ognuno abbia vissuto emozioni diverse. Il Papa ci ha detto:” Grazie per quello che fate, la danza è una preghiera ed è una delle preghiere più belle”.
Oggi il mestiere di scrivere implica saper presentare il proprio lavoro al pubblico. Come vivi questa parte della tua professione?
All’inizio con un po’ di ansia, adesso invece mi piace discutere con il pubblico, ascoltare il suo parere, descrivere i progetti in cui sono impegnato, e mi piace tantissimo l’idea di poter “raccontare” la danza attraverso la mia esperienza.
Stai già preparando o lavorando ad un nuovo libro, un inedito “ritratto in danza”?
Sì ho iniziato ma il lavoro è lungo, anche perché sono contemporaneamente impegnato nella realizzazione di due coreografie, il “Don Carlos” per il Teatro Eliseo e il “Parsifal”, entrambi del regista Marco Filiberti, e da quest’anno insegno nella Scuola del Balletto di Roma, diretta da Paola Jorio. Si tratta comunque di un ritratto che mi entusiasma moltissimo e, anche in questo caso, non ancora ricostruito.
Per concludere, la danza a te cosa ha donato di più bello a livello di percezioni e sensazioni e come definiresti questa nobile arte dal tuo osservatorio?
Il dono più bello è stato quello di poter vivere seguendo la mia passione, credo sia una delle fortune più grandi. Non è facile dare una definizione della danza, è sicuramente un codice espressivo costituito da molteplici varietà di linguaggio, la danza è memoria, è storia, ci parla di noi, della relazione con il nostro corpo e con il contesto che ci circonda, è pensiero ed emozione che si esplicitano nel tempo e nello spazio, è vita.