È andato in scena a Cosenza “Quel gran pezzo della Desdemona” che apre la stagione del Tau, Teatro Auditorium Unical.
La produzione è firmata da Luciano Saltarelli, Napoli Teatro Festival Italia, Teatri Uniti, Casa del Contemporaneo in collaborazione con l’Università della Calabria, ed è una commedia originale e bizzarra che nasce dalla surreale contaminazione della trama tragica dell’Otello di Shakespeare con il registro allusivo e infantile della commedia sexy degli anni ’70.
Il testo di Saltarelli si ispira, oltre che al capolavoro shakesperiano, alla meno nota novella “Cinzio” di Gianbattista Giraldi letterato e poeta del ‘500: «Nella novella – spiega l’autore e regista – il capitano Moro e Desdemona sono i protagonisti della storia, accanto a loro un alfiere infingardo e un luogotenente. Sarà Shakespeare a regalare un nome a Otello, a Jago e a Cassio e a rielaborare in modo deciso la novella originale. È questo il motivo per cui ho ritenuto lecito riferirmi alla nomenclatura di Cinzio riguardo ai due amanti e di concedermi qualche libertà sulla scelta dei nomi degli altri personaggi, deformandoli per necessità e ruoli che si modificano nel passaggio agli anni ’70».
Siamo nella Milano in ascesa industriale, in pieno periodo di lotte di classe, immigrazione e anni di piombo.
Il noto “Moro di Venezia”, è un operaio pieno di speranze, costretto a lasciare la sua Napoli e sua madre per cercare fortuna al nord. E’ un omone dal gran cuore, perennemente in tuta da operaio e fortemente devoto al lavoro (dopo aver sventato un incendio in fabbrica durante le festività natalizie ha riportato un trauma che gli impedisce di parlare).
La madre, tipica madre del sud, è disperata per l’allontanamento del figlio, e nel pieno di una classica “scenata napoletana” alla stazione ferroviaria, regala al figlio una ridicola mutandona rossa, (quella che sarà il casus belli di tutta la faccenda, il fazzoletto della bella Desdemona, pegno d’amore dell’amaro Moro).
Desdemona è una Lolita svampita, figlia del cummenda Brambilla, proprietario illustre di una fabbrica di manichini dove lavora il Moro.
Jago, il cospiratore, è un operaio dalla forte inflessione napoletana ed ha una moglie dalla forte indole femminista e dalla dubbia sessualità, anch’essa con un chiaro debole per Desdemona, Cassiolo è un romano di borgata, sciocco operaio di infimo ordine e pedina essenziale nelle mani di Jago.
È un susseguirsi di stereotipi, caricature, personaggi, tipici della commedia sexy italiana che ottenne grande successo di pubblico proprio negli anni in cui è ambientata la commedia, gli anni che vanno dal 1969, anno del primo uomo sulla luna, fino al 1978, anno dell’assassinio di Aldo Moro, nella Milano da bere con le sue fabbrichette.
Dal punto di vista linguistico il curatore si diverte a giocare con le macchiette delle maschere della commedia (dell’arte) italiana, restando comunque fedele alla stilistica seicentesca: l’ingenuo Cassio e il buon Moro continuano ad aggrapparsi alla fiducia incondizionata nell’amicizia con Iago. Non mancano mai di appellarlo come “Amico”.
Si avvicendano i dialetti della penisola, romano, milanese, napoletano, ed il risultato è una fotografia linguistica tipica del cinema da cui trae ispirazione l’allestimento e che, oggi come allora, segna un confine che da fisico diventa puramente ideologico, A fare da sfondo a tutta la scena è il ritmo sincopato del lavoro d’industria, colpi sordi, battiti anonimi alternati dai boati delle bombe che tuonano per le strade della città dagli atti terroristici degli anarchici di cui ravvisiamo, in lontananza.
L’industria diviene personaggio attivo in scena: la fabbrica di manichini del Brambilla da entità fisicamente individuabile si frammenta in piccoli pezzetti che, invadendo la scena, danno nuova connotazione agli oggetti. Per questo motivo troviamo al posto di una rigogliosa pianta o di bicchieri da cocktail la mano di un manichino oppure il macigno con cui intende suicidarsi Iago dopo aver scoperto la storia tra Otello e Desdemona che è il bacino di un manichino.
Un ruolo importante, inoltre, viene assegnato alla musica di Federico Odling presente per l’intera durata dello spettacolo e con l’evidente funzione non solo di accompagnamento ma soprattutto di contestualizzazione e storicizzazione della vicenda. È una Milano immersa nell’industria e nei conflitti di classe – nella fattispecie il Moro premiato per la sua devozione viene promosso caporeparto – ma anche una città devastata, fisicamente e moralmente; la scenografia è minimalista, gli attori si riposando e si cambiano d’abito in scena, non esistono le quinte, un allestimento che rompe i target definiti del teatro di tradizione e ancor di più di quello shakespeariano.
Chi avrebbe mai detto che un viaggio alla riscoperta delle trovato di Alvaro Vitali potesse essere spunto di riflessione sulla tragedia shakespeariana?