Una delle storie che più mi affascinano, tra quelle legate a quest’opera, riguarda la permanenza di Umberto Giordano a Milano durante la scrittura della musica per il libretto di Luigi Illica: il compositore passava le notti all’interno di un deposito di marmi destinati al cimitero. Non saprei dire quanto in effetti questa soluzione abitativa di evidente disagio abbia influito sulla partitura, però ci restituisce un fotogramma vivido di quell’epoca tramontata e piena di contraddizioni, che sono perfettamente incarnate nel verismo lirico di Andrea Cheniér.
La rivoluzione francese fa da sfondo ad una storia d’amore tra il poeta e una contessa, spogliata dei titoli, degli agi e idealizzata come figura femminile “altera”. Un simbolo di quella rivoluzione che da un seme di giustizia fece crescere violenze inaudite. Una contraddizione solo apparente. Così, immagino Giordano a comporre per il teatro simbolo dell’opulenza meneghina, chinato sui fogli tra statue che raffigurano defunti, lapidi, capitelli mozzati. Lo immagino ad imprimere quel velo di lirismo che permea il pentagramma, tra slanci sinfonici e un romanticismo che però non è più emozione profonda come in Verdi, ma piuttosto sfondo discreto di una drammatica vicenda storica, quindi verosimile, e quindi ancora più intrisa di drammaticità.
Ma la magia del teatro è anche questa: perché si parla di rivoluzione, di teste mozzate, di nobiltà decaduta e decadente, ma lo si fa ad un pubblico in gran spolvero, tra pellicce e gioielli, con la musica, con la poesia, con quell’alchimia unica che viene composta dal melodramma, un castello complesso del quale arriviamo a malapena ad intravedere l’esterno.
La regia di Mario Martone è tradizionale nella sostanza ma innovativa nella forma visiva, inevitabilmente “cinematografica”: asciutta e funzionale, con qualche idea davvero buona, pur senza grandi slanci creativi.
Di effetto le grandi specchiere che giocano su trasparenze dalle quali compaiono i popolani, a scimmiottare la decadenza di una nobiltà plastificata nel primo quadro, che fa da preambolo alla tragedia. Di grande effetto il tableau vivant che chiude il terzo quadro, con il coro intero ad additare la presunta colpevolezza dei condannati a morte, e molto ben riuscito il finale, con Cheniér e Maddalena congelati di fronte al boia e alla ghigliottina.
Le scene di Margherita Palli sono esteticamente gradevoli e funzionali, soprattutto grazie al meccanismo “a carrilon” come lo ha definito lo stesso regista, che consente di cambiare le scene tra un quadro e l’altro senza interrompere la rappresentazione. Visivamente ricordano molto quelle della Boheme di Zeffirelli, ma con lo sfondo della stessa Parigi in veste meno barocca e più verosimile. Ancora, niente di innovativo, ma un classicismo ben riuscito.
Riccardo Chailly torna a dirigere la partitura di Giordano a 30 anni dalla sua celeberrima incisione con Pavarotti e Caballé, con lo stesso vigore misurato, calibrando come sempre gli slanci sinfonici e misurando le sezioni e gli assoli con una sensibilità a cui ci ha abituato negli anni e che apprezziamo sempre in modo estatico. Unico neo nella sua concertazione: l’orchestra a tratti ha sovrastato eccessivamente i cantanti.
Cosa possiamo dire su Anna Netrebko, se non tesserne ancora una volta le lodi? Lo spessore emotivo che infonde al personaggio, accompagnato da un timbro genuino e ricco di sfaccettature, una tessitura composta in tutti i registri, una potente delicatezza che esce da un’ugola misurata e appassionata. Un vero piacere ascoltarla.
Delude invece Yusif Eyavazov. Un Andrea Cheniér senz’anima, ingessato nel timbro e nelle movenze. Privo di sfumature psicologiche, senza passione, sebbene misurato e tecnicamente vicino alla perfezione, non convincono il timbro e l’interpretazione, più gridata che appassionata, come avrebbe richiesto la parte.
Luca Salsi, al contrario, è riuscito a rendere credibile l’evoluzione psicologica di un Carlo Gérard che da servo diventa rivoluzionario, infondendogli passione, slanci emotivi, spessore a tutto tondo: nella voce, nelle movenze, nel bel timbro rotondo e importante.
Bravi anche tutti gli altri cantanti sul palco e il coro, diretto dal maestro Bruno Casoni, che ha collaborato come un unisono preciso al successo di questa produzione.
A fine recita applausi fragorosi, in particolare per Netrebko e Chailly.
La recensione si riferisce alla recita di mercoledì 13 dicembre.
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Andrea Chénier
Dramma di ambiente storico in quattro quadri
Libretto di Luigi Illica
Musica di Umberto Giordano
Nel cinquantenario della scomparsa di Victor de Sabata
Coro, Corpo di Ballo e Orchestra del Teatro alla Scala
Nuova produzione Teatro alla Scala
Direttore: Riccardo Chailly
Regia: Mario Martone
Scene: Margherita Palli
Costumi: Ursula Patzak
Luci: Pasquale Mari
Coreografa: Daniela Schiavone
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CAST
Andrea Chénier: Yusif Eyvazov
Maddalena di Coigny: Anna Netrebko
Carlo Gérard: Luca Salsi
La mulatta Bersi: Annalisa Stroppa
La Contessa di Coigny: Mariana Pentcheva
Madelon: Judit Kutasi
Roucher: Gabriele Sagona
Il romanziero, Pietro Fléville, pensionato del Re: Costantino Finucci
Fouquier Tinville, accusatore pubblico: Gianluca Breda
Il sanculotto Mathieu, detto “populus”: Francesco Verna
Un “Incredibile”: Carlo Bosi
L’Abate, poeta: Manuel Pierattelli
Schmidt, carceriere a San Lazzaro: Romano Dal Zovo
Il Maestro di Casa/Dumas, presidente del Tribunale di Salute Pubblica: Riccardo Fassi