È un Jurij Ferrini nei panni di se stesso a presentare lo spettacolo appena dopo il sipario, ma prima che lo spettacolo cominci. Mentre attrici e attori popolano il palcoscenico alle sue spalle, il regista presenta Le Baruffe Chiozzotte come un testo di Carlo Goldoni talmente inserito nel suo contesto di provenienza (il litorale veneto della seconda età del 1700) da necessitare un intervento di traduzione.
Il pubblico non può che dividersi tra lo sbalordimento e le perplessità, dunque, accorgendosi che non solo il regista rimane a lato del palco, ma che i figuranti non si sono ancora spogliati dei loro abiti, mentre i costumi di scena rimangono in bella vista sullo sfondo della scenografia portuale della Chioggia dell’epoca. E con uguale sgomento ci si avvede che lo spettacolo è già cominciato nel momento in cui Ferrini ha fatto gli onori di casa.
A incidere ulteriormente sul senso di straniamento, che presto si tramuterà in divertimento puro, la presunta traduzione di Natalino Balasso sembra essersi limitata soltanto alle battute di qualche personaggio, mentre non sembra esserci alcun tipo di adattamento: il registro classico, fedele a Goldoni, mantenuto dagli attori (almeno da quelli che parlano in italiano convenzionale) stride con il loro abbigliamento “casual”.
Il sipario alzatosi prima dell’ingresso di Ferrini non calerà più fino all’ovazione finale della platea: in questo lasso di tempo, la supervisione attiva del regista, il netto contrasto tra l’aspetto degli interpreti e lo sfondo scenografico, il frequente rimbeccare il pubblico garantiscono un divertimento intelligente e non scontato. La traduzione di Balasso non si è limitata all’accentuare l’espressività (adattando la commedia a un’ilarità viscerale, a insignificanti risate “di pancia”) neanche quando il testo goldoniano subisce una marcata esasperazione (spesso giocata sui dialetti e sugli stereotipi di genere, ma mai in maniera offensiva).
La rilettura di Goldoni non è una semplice attualizzazione, potrebbe essere piuttosto una riflessione critica sulla difficoltà di attualizzare un autore tanto legato alla sua epoca: Le Baruffe Chiozzotte diverte in modo quasi colto, forse perché non è mai chiaro se il merito sia del regista o del “traduttore”. La drammaturgia di Balasso, giocata sull’incomprensibilità del dialetto stretto sopravvissuto alla traduzione, incontra la regia di Ferrini che riesce a coreografare gli attori in massa sul palco e il palco stesso, ridisponendo i singoli elementi scenografici per l’allestimento di nuove scene a sipario aperto.
Il matrimonio di traduttore e regista non è tuttavia semplice. Equivoci, scenette ed esasperata drammaticità sono soltanto la punta dell’iceberg di un meccanismo comico più profondo e ragionato: come se qualcosa dell’adattamento/traduzione fosse andato perduto, lost in translation, la trama imbastita intorno alle baruffe arriva a coinvolgere gli interpreti stessi, palesando le finte incomprensioni di Balasso e Ferrini che inducono quest’ultimo a sorvegliare la scena fin dall’inizio.
Lo spettacolo ha certamente il grande fascino del non finito. Almeno fin quando le tensioni dei personaggi si dipanano nel lieto fine delle triplici nozze, e la reciproca incomprensione di adattamento e regia si risolve in un quarto, tacito matrimonio.
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Le Baruffe Chiozzotte
tratto da Carlo Goldoni
adattamento e traduzione di Natalino Balasso
regia Jurij Ferrini
assistenza alla regia Marco Lorenzi
con Jurij Ferrini, Elena Aimone, Matteo Alì, Lorenzo Bartoli, Christian Di Filippo, Sara Drago, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecc a Rossetti, Michele Schiano di Cola, Marcello Spinetta, Angelo Tronca, Beatrice Vecchione
scenografia di Carlo De Marino
costumi di Alessio Rosati
tecnico luci Lambeto Pirrone
tecnico audio Gian Andrea Francescutti
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale