La discesa agli inferi di una coppia borghese in cui si va insinuando la crepa della disparità sociale. Lui uomo d’affari in vorticosa ascesa, lei iniziale supporto del marito e poi a disagio per la mancata realizzazione professionale. La discrasia si accentua vieppiù spingendo la donna alla separazione e all’annientamento emotivo e fisico, epilogo e sintesi del disfacimento di ogni sentimento e, perfino, dell’istinto di sopravvivenza.
Tratto dal romanzo di Warren Adler, il fortunato film di Danny DeVitodel 1989 con Michel Douglas e Kathleen Turner ci ha posto davanti all’abisso dell’animo umano in cui sprofondano la passione, la devozione, il successo, la rispettabilità ribaltati in odio, disprezzo, tracollo, discredito.
La fine di un amore spesso si condensa in un bramoso annientamento dell’altro ma può trascendere fino alla propria dissoluzione, incuranti di figli adolescenti? Ai Roses succede, e anche nella vita quotidiana, come attestano frequenti fatti di cronaca.
Salendo dalla platea i due coniugi raccontano al pubblico gli inizi del loro amore e la vita familiare, ciascuno dal proprio punto di vista. Adesso, dopo 18 anni di matrimonio, le strade di Barbara e Jonathan divergono irrimediabilmente, ma nessuno dei due vuole abbandonare la casa simbolo del proprio ruolo sociale. La dicotomia tra desideri e realtà innesca una giostra di perfidi stratagemmi in un crescendo irrefrenabile tra dramma e grottesca ironia.
L’adattamento teatrale, curato dallo stesso autore, nella traduzione di Antonia Brancati e Enrico Luttmann è un doppio a tennis, donne contro uomini: a sinistra del palcoscenico l’avvocatessa che incita la moglie sostenendo le sue rivalse con battute femministe, a destra il principe del foro pragmatico che fa allusioni sessiste e pensa alla parcella, trasformando la guerra fra i Roses in un falò su cui soffiano gli avvocati. Al centro la lussuosa casa dalla bianca scenografia prospettica inclinata sovrastata da un sontuoso lampadario di cristallo, immanente punto focale di tutti i dissidi, è il ring di un match da KO che alterna schermaglie a suadenti avances, rancori a teneri ricordi, ingiurie a languidi raggiri.
La donna, nella sua belluina presa di coscienza ritiene il marito causa della rinuncia alla propria autonomia professionale e ne farà la vittima di un’agognata palingenesi. Un amore che sfocia in una guerra, e ogni campo di battaglia produce i suoi morti.
La regia di Filippo Dini tiene alta la tensione per le due ore di scontri all’arma bianca punteggiati da ironica e onirica comicità. Il paragone con il film rende la messinscena meno massacrante ma inesorabilmente tesa a dissolversi nel crollo del lampadario che, tra bagliori rossastri, si trascina dietro tutta la visionaria scenografia di Laura Benzi e, sotto le cui macerie, i due, finalmente, si tenderanno la mano.
Ambra Angiolini è un’artista matura che domina il registro dell’espressività dal tragico al brillante, esprimendo le corde della fragilità e del cinismo del suo personaggio. Matteo Cremon disegna con credibilità il profilo dell’uomo disorientato dalla crudeltà della sua non più accondiscendente mogliettina. Massimo Cagnina è un versatile Goldstein, irresistibile anche en travesti nei panni di un’ospite, mentre meno grintosa e un po’ in sordina è Emanuela Guaiana, l’avvocatessa Thurmont.
Le luci di Pasquale Mari e le musiche di Arturo Annecchino assecondano i ritmi e le cesure dell’impianto scenico, in cui porte e finestre si aprono e si chiudono con suoni striduli.