Arriva sul palcoscenico il romanzo di Roberto Saviano, di finzione e tuttavia ispirato alla realtà della camorra napoletana degli ultimi anni.
Dieci ragazzi di Forcella e Ponticelli, privi di prospettive e fiducia nel domani, si alleano per affiliarsi alla camorra. Intemerati, disposti a tutto, scollegati dalla famiglia e dalla società civile, sfrecciano sui loro motorini per dare la scalata a potere e soldi, al grido “i soldi li ha chi se li prende”. Scarpe firmate e soprannomi da fumetto (Maraja, Dentino, Dragò, Pesce Moscio, Drone, Briatò, Dumbo, Lollipop, White) sono gonfi d’entusiasmo per l’inclusione nella paranza, gruppo armato nel gergo camorristico, termine mutuato dal linguaggio marinaresco che indica i pesci di piccole dimensioni che, richiamati dalle luci delle lampare, salgono in superficie rimanendo incagliati nelle reti.
Così questi giovani, lusingati dalla facilità del successo, mettono a rischio la vita seminando il terrore nei quartieri scorrazzando con gli scooter e stringendo alleanze con boss agli arresti domiciliari o latitanti che considerano maestri di vita, ai quali esibire attestati di ferocia. Il capo Maraja, efferato e sanguinario, guida la sua gang con spietata noncuranza verso ogni istituzione, ricorrendo anche al delitto. I suoi ricordi scolastici attingono soltanto agli aforismi del Principe di Machiavelli per alimentare i suoi “sogni di gloria”.
Nell’assenza di educatori aggirano la legalità, imboccando la via maestra del crimine, abbracciando il loro tragico destino. Tutto e subito, per ricavare in poco tempo più di quanto i loro padri guadagnerebbero in una vita, se potessero lavorare! Riscattandosi dalla miseria, barattano il successo con la vita “vita e morte è la stessa cosa! È accussì che se campa, no?”
Questi ragazzi di paranza, ingannati dalla luce del potere, finiscono nella rete della camorra che li sacrifica per i propri scopi criminali “per diventare bambino c’ho messo dieci anni, per spararti in faccia ci metto un secondo”. Obnubilata la coscienza, la loro esistenza è legata al clan, angeli del male con le ali tatuate sul dorso, che incutono timore per ottenere rispetto.
Vite ai margini, paradigmatiche della “malattia dell’infanzia” secondo la definizione di William Golding che Mario Gelardi ha utilizzando come filo conduttore, ispirandosi alle graphic novel di Frank Miller e alle anime nere del suo Sin City, nella realizzazione della drammaturgia e nella regia (con la collaborazione di Carlo Caracciolo), portando in scena i giovani del Nuovo Teatro Sanità.
Il nero è il colore delle scene di Armando Alovisi e dei costumi 0770 di Irene De Caprio, riflesso delle anime di quegli adolescenti che giocano con le armi essendo incapaci di sognare. La scenografia è divisa in due livelli, in alto le scene con il boss Copacabana, in basso i praticabili che ruotano delimitando gli spazi.
Spettacolo civile che testimonia una drammatica realtà, in un allestimento corale che sprizza energia con gli attori agili ed atletici che si arrampicano e volteggiano come acrobati, quasi eroi immortali con le sembianze dei cattivi dei fumetti, e diventano tanto verosimili da indurre perfino un coinvolgimento emotivo nello spettatore.
Il dialetto napoletano utilizzato con estrema naturalezza veicola tutta la potenza del fenomeno criminale giovanile, che arriva al pubblico con veemenza, sottolineato e amplificato dalle musiche elettroniche di Tommy Grieco.
Vincenzo Antonucci, Antonio Orefice, Ivan Castiglione, Antimo Casertano, Riccardo Ciccarelli, Mariano Coletti, Giampiero de Concilio, Simone Fiorillo, Carlo Geltrude, Enrico Maria Pacini sono i protagonisti di questa bottega teatrale che è il Nuovo Teatro Sanità “un luogo di resistenza” lo definisce Saviano, diventato un riferimento culturale.