Dimenticate il gotico e le atmosfere cupe della tradizione: come Berlioz ha voluto creare un suo personale Faust non con una opera, ma con una leggenda drammatica, allo stesso modo Damiano Michieletto, enfant terrible della scena internazionale, al suo vero e proprio debutto al Teatro dell’Opera di Roma (dopo il Trittico e Il viaggio a Reims) ha creato un suo personalissimo Faust raccontando la vita di un uomo.
La Damnation de Faust del regista veneziano è all’insegna non solo della atemporalità dichiarata, ma anche della contemporaneità assoluta che riesce a travalicare ogni tempo e ogni luogo privo di una messinscena realistica: non c’è nulla di gotico, eccezion fatta per la pece-sangue nel finale e che travolge il pubblico svelando l’inferno, ma di fatto non c’è possibilità di redenzione e non c’è speranza.
La regia di Michieletto, che ha costruito un racconto articolato sulle tappe della vita di un uomo, è europea, internazionale e modernissima per la non opera per eccellenza: la scena di Paolo Fantin illuminata da Alessandro Carletti, è spoglia, bianca, quasi asettica, richiama un laboratorio con corridoi (non a vista).
Il palco è invaso da un maxi schermo, cuore centrale di uno spazio bianco, settico e scarno, dove vengono proiettati direttamente dalla scena momenti della vita di Faust,
rettangolo centrale diventa immediatamente lo schermo scelto per la proiezione di una regia della regia che viene effettuata con una steadycam con la regia orchestrata da un aitante e vanesio Mefistofele che indugia con curiosità e sguardo morboso e voyeristico nella vita di Faust e che gigioneggia con fare da anchorman consumato davanti alle telecamere sfruttando tutti i suoi molteplici mezzi a disposizione stimolando immediatamente un forte meccanismo di immedesimazione (e di facile presa) nei confronti del pubblico.
Alle spalle, in una sorta di retropalco, con il coro praticamente immobile che osserva a sua volta il pubblico e che viene collocato in solenni, alti scranni illuminati da inquietanti candele che emanano luce sacrale.
La regia di Michieletto è europea e scaltra: riesce astutamente a pescare nella gamma delle emozioni umane e a dosarle con equilibrio, ora scandalizzando (il bacio omosex a causa di un inganno poi svelato o qualche nudo femminile), ora provocando (lo stupro violento e gratuito di Margherita alla fine), ora suscitando emozione e nostalgia (la mamma di Faust che prepara la torta), ora intenerendo il pubblico (l’incontro di Faust e Margherita bambini, piccoli replicanti degli adulti) come Faust che viene distolto dai suoi propositi di morte da Mefistofele con dolcissimi ricordi cui aggrapparsi, ora proponendo una scena ripugnante come quella del bullismo, in un crescendo sempre più terribile e cupo che richiama la cronaca quotidiana, fino alla travolgente scena finale.
In un’atmosfera di profonda angoscia dove non c’è alcun posto per la speranza, non manca un tocco irriverente e divertito con la ricostruzione del teatrino del Paradiso di Cranach il Vecchio, con tanto di albero rovesciato, una finzione allestita da Mefistofele che si traveste in diretta da serpente sinuoso, ma destinata a infrangersi in men che non si dica.
Anche i personaggi sono estremamente moderni come eterna è la storia di Faust, dell’uomo: il dottor Faust di Michieletto non è un dottore, ma un giovane attanagliato dall’infelicità che non trova un posto nel mondo.
Faust è afflitto dal male di vivere che arriva benissimo al pubblico, è travolto dalla noia e dall’infelicità (e dal bullismo), è una marionetta (alla fine di vedono anche i fili) nella mani di Mefistofele da lui scelto come cavia in un esperimento senza ritorno. Non solo. È un giovane moderno e senza speranze (senza punti di riferimento contemporanei) vertice di un triangolo fra Margherita, in rosso, che cerca di salvarlo in tutti i modi fin dall’inizio, e Mefistofele, corruttore diabolico di bianco vestito.
Il trio di artisti (unico nella cinque repliche dopo il debutto del 12 dicembre e fino al 23 dicembre) è di alto livello con un bravissimo Alex Esposito, istrionico Mefistofele, una convincente Veronica Simeoni nel ruolo della sconfitta Margherita, un buon Pavel Cernoch nel ruolo del dubbioso e debole Faust.
Pulita e attenta, sofisticata e avvolgente la direzione d’orchestra del Maestro Gatti che regala sfumature alla ricca partitura musicale per offrire il giusto appoggio alla drammaturgia nel rispetto dell’approccio della sintassi musicale.
L’apertura della stagione d’opera del teatro capitolino è stata una vera dichiarazione programmatica di intenti, una scelta audace e coraggiosa che è stata premiata anche dal pubblico. Ultime repliche giovedì 21 (ore 20) e sabato 23 (ore 18). Info su www.operaroma.it.