Anteprima nazionale al Florian Espace di Pescara per 4:48 Psychosis di Enrico Frattaroli, “sinfonia per sola voce” elaborata dal testo più estremo di un’autrice estrema come Sarah Kane. Per il teatro odierno fare i conti con la drammaturgia della Kane rappresenta un passaggio quasi dovuto, uno snodo che prima o poi chiama all’appello gli artisti della scena, quanto meno per contribuire allo sguardo su di una scrittura che attende ancora un giudizio compiuto, scevro dall’aura “maledetta” irradiata dal destino tragico della scrittrice.
Frattaroli sembra voler riempire alacremente l’insieme dei quesiti ancora aperti, andando a scegliere – nel canone fatalmente breve della Kane – il titolo meno catalogabile, quello più esposto al dubbio: 4:48 Psychosis è un testo teatrale? È un testo rappresentabile? Oppure si tratta di un prezioso documento personale, il lascito vibrante di una sensibilità lucida e capace di analizzarsi fino al momento del limite ultimo, ma nulla più di una testimonianza individuale, dunque organicamente posizionata al di qua del territorio dell’arte?
Teatralità, rappresentabilità, artisticità: Frattaroli – per il tramite della sua messinscena – non mostra oscillazioni di giudizio, sentenziando energicamente a favore delle ultime due categorie, declinando per contro la prima con eguale recisione. In questo passaggio concettuale risiede il fattore-chiave dello spettacolo ma anche la “molecola” decisiva per la rappresentabilità di 4:48 Psychosis, l’antidoto che libera il testo dal suo maledettismo lettarario: rifiutare sul nascere la ricerca di ogni sostanza drammaturgica non rappresenta soltanto un piano di regia, bensì è l’unica via percorribile per mettere in scena l’ultima opera vergata da Sarah Kane, il suo lascito personale ed artistico.
L’intuizione di Frattaroli è dunque semplicemente giusta oltre che brillante, ma soprattutto è comprovata dalla sua funzionalità scenica ben più che dagli argomenti: il rigoroso mono-tono di Maria Teresa Pascale, intervallato da parentesi e cambi di marcia repentini, funziona maledettamente bene sulla liquidità della tela sonora intessuta con precisione millimetrica da Frattaroli, un missaggio accattivante che viaggia senza forzature da Gustav Mahler a PJ Harvey, e che sostiene costantemente la performance attorica anche oltre i passaggi formalmente musicali, come un fiume (joyciano?) di presenze sensoriali prima che sonore, di contrappunti sia vocali che scenici.
Risiede qui un saggio di teatro e di teatralità, come dimensione in cui ogni elemento non è mai solo suono, solo oggetto o solo significato, bensì ognuna di queste cose contemporaneamente, grazie alla moltiplicazione semiotica che ciascuna di esse acquisisce all’interno di quel moltiplicatore che è il linguaggio teatrale, se trattato consapevolmente e sapientemente. Così, la solitudine totale di Sara Kane in 4:48 Psychosis è già un coro, è già una moltitudine, popolata da demoni e da testimoni, invisibili eppure attivi: non necessita di empatia né di partecipazione da parte del pubblico. Ecco perché può essere recitata con distacco in termini di immedesimazione tra attrice e testo, ritrovando la sua adesione totale alle parole solo come gocce di un magma poetico, come forme alle quali si può aderire soltanto tramite una scelta formale. Nella perfezione delle maglie metriche e musicali fissate da Frattaroli, Maria Teresa Pascale non commuove mai, ma ci trascina non di meno nella sensorialità tentacolare di 4:48 Psychosis, rendendo vita ai singulti che sono impliciti nelle singole sillabe, nei singoli sintagmi, nei passaggi di immaginifica manipolazione verbale in cui la scrittrice esperiva ed esauriva senza risparmio il suo slancio vitale, immergendosi nelle onde di un rapporto totale, quasi fisico e palatale, con le possibilità della lingua.
Perché 4:48 Psychosis è anche questo, la fotografia di un atto di abbandono duale, diametrale da parte di Sarah Kane: un abbandono alla seduzione della lingua prima che un abbandono della vita, ma soltanto la corporeità di una messinscena è in grado di farlo affiorare alla vista ed alla vita. Il concept congegnato da Enrico Frattaroli disvela dall’inchiostro inerte del testo l’opera di erotizzazione linguistica che Sarah Kane compie più che mai nella sua ultima creazione, liberata dal condizionamento delle convenzioni teatrali. Una madrelingua declinata, reinventata, riscoperta nel suo ruolo di lingua madre, a cui tornare come placenta, come infinito in cui il tempo non esiste. In cui nulla muore, in cui solo si nasce.
Persino la temibile serie di verbi (desunti dalla teoria dell’effort di Laban) che compare nella seconda parte del testo, non si traduce in scena come quel vuoto che si paventa e spaventa già alla sola lettura. In questa preminenza pregnante della componente linguistica, la visualizzazione di stralci testuali ci sta tutta e costituisce ben più di un orpello estetico o di una variazione. Il fondale funziona come parete “ottica” dove scorre l’altro contrappunto alla recitazione, rappresentato dalla proiezione di figure mobili, quasi vive, teatralizzate anch’esse e “sorprese” nel loro farsi all’interno del qui ed ora. Le immagini per la maggior parte ritraggono con raffinatezza neo-gotica spazi vuoti e fessure ritagliate, spalancate come arti, dove respirano in equilibrio tremulo l’aspirazione alla fuga e l’invito al congiungimento.
La solidità della cifra concertistica, individuata con acume e composta con finezza da Enrico Frattaroli, fa sì che risultino meno convincenti i momenti di sospensione, volontaria o accidentale: ci si riferisce alle brevi scene poste ad inizio e conclusione dell’azione, ma anche ai passaggi invettivi, dove il testo sfugge al controllo e scivola fatalmente nei domini del recitato. Di pari grado, nei dialoghi tra la “Sarah-paziente” e lo “psichiatra-demiurgo” non si realizza mai la cesura ricercata. Dal canto suo, la scena non si coniuga con l’accuratezza essenziale che sostiene i momenti migliori dello spettacolo: un arcipelago piuttosto semplicistico di fogli accartocciati sul palcoscenico, addizionati secondo una linea stilistica oscura ad un paio di bauli fintamente antichi ed esteticamente pretenziosi, tenta di mimetizzare – vanamente ed erroneamente – la nudità scabra (ma genuinamente perfetta) di un laboratorio vocale, costituito da un insieme magnificamente seriale di postazioni tecniche, in cui i bracci – ora flessi ora distesi – dei microfoni ad asta puntellano con nettezza le profondità dello spazio, quasi i punti cardinali sciolti dal quadro di una bussola, rimescolati come dadi prima di un salto nel buio.
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CREDITS“4:48 PSYCHOSIS” di Sarah Kanein forma di“sinfonia per sola voce” di Enrico Frattarolicon Maria Teresa Pascalevideo, scena e regia Enrico Frattarolielaborazioni musicali da Gustav Mahlervoce soprano in audio Patrizia Poliaresponsabili tecnici Renato Barattucci, Edoardo De Piccoliassistente alla regia Giorgia Sdeicura Giulia Baselproduzione Neroluce/Florian Metateatro