La sera del 12 gennaio la Compagnia del Nuovo Teatro San Paolo di Roma ha messo in scena due atti unici, ‘La Lezione’ di Ionesco (1950) e ‘Il tabacco fa male’ di Cechov (1886 e 1902), tragiche allegorie sulla mistificazione del linguaggio, ridotto a strumento di rigido e ripetitivo formalismo, di potere autoritario e pretestuoso che tutto omologa e annulla ogni diversità di razza e cultura. Il verbo è svuotato di ogni logico contenuto, ricondotto a suono primordiale nella ciclicità di un gioco perverso e ineluttabile il cui esercizio perpetua la solitudine e l’abbrutimento dell’uomo postmoderno. La regia di entrambe le pièces è firmata da Luigi Di Majo che interpreta altresì il ruolo del conferenziere nel monologo cechoviano. L’accostamento suggerito da Di Majo fra due giganti della drammaturgia moderna non è affatto casuale né ardito ma semplicemente provocatorio e puntuale. Se Cechov influenza le avanguardie storiche dei primi del Novecento, favorendo, con lo scardinamento di ogni canone, la libertà di espressione nell’arte, Ionesco svilupperà fino in fondo la concezione metafisica del teatro dell’assurdo. Lo farà sulle ceneri della barbarie nazista e del conformismo, dell’abitudine reiterata, dell’inanità di una comunicazione fra gli esseri usurata e disarticolata. Privato di significante coerente con la realtà, il linguaggio diviene la manifestazione più greve di distorsione della verità. Il tema ricorrente di Ionesco è la condanna di ogni ipocrisia dei rapporti sociali, dei luoghi comuni che disintegrano l’individuo. È dissenso mai come prima dissonante che travolge e rompe gli schemi della cultura imperante e del teatro borghese e si propone non già di rianimare un’umanità sofferente devastata da rapporti alienati, ma di prendere coscienza e denunciare la stessa illusione, il fallimento, il non senso e la banalità della vita umana, accettandone infine la persistente contraddittorietà. L’evasione, in Cechov e ancor più in Ionesco, è l’unico modo per esorcizzare il nulla, per sentirsi vivi e non essere sopraffatti dall’angoscia, per appropriarsi, negli squarci del quotidiano, della propria spirituale emotività densa di tensioni che induca alla speranza, destinata comunque a soccombere. Uno slancio, un brivido che si muta in rantolo. La dissoluzione di valori condivisi portanti genera mostri e vittime sacrificali, maschere e automi, elementi inanimati e inconsapevoli di un meccanismo comportamentale e sociale perverso. ‘La lezione’ viene descritta dal suo stesso autore, con un ossimoro azzardato e paradossale ma efficace, ‘dramma comico’. L’anno successivo comporrà ‘Le sedie’, tragicomica farsa della vita, esempio ancor più spettrale di teatro come catabasi. Siamo di fronte a modelli sperimentali di rappresentazione iconografica, astratta, in cui Ionesco tratteggia, con la propria disillusione, la crudele parabola e il nonsenso della vita. Il milieu storico ed esistenziale in cui l’opera del drammaturgo si forma influenzerà per sempre la sua poetica, ne è l’imprescindibile chiave di lettura ma anche il suo limite invalicabile. Il pessimo rapporto con il padre, la tragedia di due conflitti mondiali devastanti promuovono in lui una visione pessimistica al punto da avvertire l’urgenza di comunicare ai suoi contemporanei in maniera folle alcune verità essenziali colte attraverso la tragedia del linguaggio. L’obiettivo di tutta la sua produzione sarà “non di far la caricatura di una situazione ordinaria, ma di rendere ordinaria l’assurdità fino al punto di mostrare quanto infinitamente assomigli a ciò che chiamiamo anormale e quotidianamente accettiamo come tale”. Il rifiuto del linguaggio logico-consequenziale conduce ad una analogica successione di eventi tenuti insieme da una labile traccia in cui i personaggi, pur nella loro opprimente tragica solitudine, ‘rilasciano’ squarci grotteschi di autoironia e amara comicità. Fa da contrasto un crescente decadimento e dissoluzione dell’io, in un subliminale, coinvolgente processo scenico di identificazione. ‘La lezione’ è un testo surreale che abbandona qualsiasi struttura di modello precedente, la medesima funzione di un teatro giudicato scontato e banale nella caratterizzazione di archetipi e nella narrazione di una trama aneddotica che riflette un’osservazione distorta e iperrealistica dei fatti. I protagonisti sono un vecchio professore che impartisce lezioni di matematica e filologia, una studentessa che deve conseguire il dottorato totale, e una governante, figura controversa ed evanescente. La filologia e la matematica sono per Ionesco strumenti di coercizione, la sua ossessione ricorrente, rappresentando rispettivamente l’arte che ricostruisce le fonti dei testi letterari, più semplicemente l’interesse per lo studio delle parole, e l’arida precisione del ragionamento. La manipolazione del linguaggio, privato del ruolo di intermediazione, ha prodotto l’involuzione del pensiero relegato a un insieme di formule ad uso delle classi dominanti, ha depresso la creatività di ognuno impedendo la comprensione fra gli esseri e generando l’isolamento. L’allestimento dell’opera è spoglio, minimale. L’azione, la gestualità dei personaggi, volutamente grottesca, viene ridotta all’essenziale di quel poco che serve ad evocare il dramma. Il linguaggio è frammentato, fitto di allitterazioni, onomatopee e vaniloqui. Dopo iniziali convenevoli di studio improntati a reciproche smancerie, i buoni propositi si disperdono e il confronto si fa aspro. Le risposte contrastanti dell’allieva, a volte ingenue e disarmanti, a volte impertinenti di fronte alla bislacca e ostile inquisizione, sospingono il carnefice ad un crescendo inarrestabile di angherie e di sopraffazione che annienta la preda. L’indifferenza al dolore diviene collerica insofferenza e spazza via ogni sempre più flebile resistenza della ignara giovane. Il tono, inizialmente compiaciuto e compiacente, si muta in cupo e sfuma tra l’annoiato e il veemente. È ormai aggressivo e senza freni, fino al delirante epilogo e alla goffa, tremula dissociazione dell’insegnante macchiatosi di femminicidio che chiude l’opera. La governante è alleato che puntella il potere, presenza che sorveglia e mette in guardia, ma si astiene dall’intervenire e men che mai cede al rimorso. Quel suo ‘La filologia parta al peggio’, ribadita anche quando tutto è ormai compiuto, è presagio di sventura che sciaguratamente consente. Un augure nefasto e mostruoso che ciurla nel manico, complice di un monotono rituale che riproduce e non può né vuole arrestare. Maria è la governante nazionalsocialista, è il solitario surrogato del coro e fa da subdolo controcanto del dramma. Tutto è esageratamente previsto e prevedibile in questa allucinata macabra lezione. Il cinismo dei vincitori resterà per sempre impunito, nel corteo funebre non ci potrà essere posto per la pietà ma solo per l’ultimo scempio e le stagioni di morte saranno replicate tutte uguali a se stesse. Il teatro di Cechov, prima e diversamente da Ionesco, risente dell’influsso del ‘Teatro d’Arte’ di Mosca e l’adesione al metodo Stanislavskij sarà evidente negli ultimi capolavori. Anche in Cechov non c’è trama vera, nel senso tradizionale, la prestazione dell’attore non è al servizio dell’intreccio, ma oltre al testo c’è l’anima autentica e vitale, l’intenzionalità che non può essere controllata, l’emozione interpretativa dei personaggi che sale dal subconscio conferendogli uno spessore nuovo. Lo spazio esterno è funzionale alle pulsioni, ai sentimenti interiori. In lui si attua una inedita espressione di recitazione che eleva a sistema la compenetrazione tra forma e contenuto e, all’esterno, la comunicazione col pubblico assume un’importanza rilevante. ‘Il tabacco fa male’ è un monologo in cui si consuma il dramma psicologico di Ivan Ivanovic Njuchin, un pover’uomo mite e fallito, incaricato dalla moglie, insegnante di una scuola musicale e di un collegio femminile, di tenere una conferenza sui danni che il tabacco arreca alla salute, ancorché sia fumatore egli stesso. Traumatizzato da un ambiente familiare dominato dalla consorte dispotica con il contorno di sette figlie, quando non ha compiti speciali da autogestire, trascina la sua scialba, inutile esistenza occupandosi degli adempimenti domestici. Il poveruomo da trent’anni deve inventarsi argomenti nuovi per riempire di contenuti più o meno scientifici quegli appuntamenti commissionatigli per beneficenza e propaganda. Intrappolato nel cerimoniale di una vita cadenzata e decisa da altri, il solo modo per rompere l’assedio è cogliere la ghiotta occasione e sentirsi finalmente vivo per pochi attimi. Preferendo al linguaggio aulico di una formale, accademica conferenza come tante una sanguigna chiacchierata, seppure rispettosa di una eterea platea, approfitta della libera uscita per lasciarsi andare senza rete o quasi in un libero sfogo contro le angherie subite, trascurando ben presto l’oggetto e il motivo della sua pubblica presenza. Le esternazioni del patetico oratore scuotono la monotona rigidità di quel linguaggio formale da cui vuole liberarsi, di quella prigione che ne irretisce le residue energie, in un vano afflato di persuasione delle ombre intorno a lui, in un estremo grido di affermazione dell’esserci. Si avvale di un gioco sottile di trasposizioni metaforiche mentre si impadronisce in modo bizzarro e totalizzante dello spazio scenico a disposizione per aggredirlo finché può, finché dura la ricreazione, prima di rientrare nei ranghi e rivestirsi dell’ignobile condizione assegnatagli. A differenza di Ionesco, in Cechov il linguaggio ha una forza liberatoria insopprimibile e i territori dell’anima sono attraversati da lucida vibrante analisi. I suoi antieroi, così miseri e ridicoli, alla disperata ricerca di identità, di un ubi consistam che ne lenisca le frustrazioni e il tormento insostenibile. L’evasione è pur sempre condizionata ma non approda al nihilismo e la fede nell’uomo tormentato che lotta contro ogni forma di alienazione alimenta la speranza. Luigi di Majo è un conferenziere superlativo. Ha dalla sua ‘le phisique du role’. Misurato ed elegante, garbato e lagnoso per necessità, inguainato in un frac di grande effetto, l’incedere elegante come si conviene, il modo di affabulare mai sopra le righe, anche quando le vicissitudini personali lo reclamerebbero. Sembra uscito dalla penna del grande drammaturgo. Una performance da incorniciare sulle note di Puccini. Maurizio Faraoni è l’isterico e feroce professore della Lezione di Ionesco. È bravo in un ruolo impegnativo, solo a tratti un po’ lezioso. Margherita Adorisio è la malcapitata studentessa. Attrice di rango. Notevole presenza scenica e personalità. È dotata di versatilità, sempre a suo agio, prova intensa venata di contrastante ironia che sottolinea il dramma. Elisabetta Magrini è l’enigmatica governante Maria. Se la cava bene come assistente spregiudicata e diabolica allorché disvela infine la vera identità nazista; un mastino fedele che assicura continuità ai misfatti. Interpretazione più che dignitosa, convincente, direi. La regia rigorosa è di Luigi Di Majo. La coreografia dello spettacolo è di Giorgia Valeri. Le musiche di Offenbach, Domenico Cimarosa e Puccini. Assistente alla regia Patrizia Guardati.