Uno dei lavori più interessanti della stagione, per l’universalità del tema, l’intramontabilità della scrittura di Eduardo e l’intensità della recitazione.
Il testo è il più noto del drammaturgo napoletano, scritto nel 1946 per la sorella Titina, molto amato e rappresentato anche all’estero, nel quale si sono cimentate attrici di vaglia come Regina Bianchi, trasposto anche al cinema con la Loren e in televisione con la Melato.
Mariangela D’Abbraccio, che debuttò a teatro con Eduardo, riversa nella figura della popolana una sanguigna e verace napoletanità che trabocca dalla fisicità sormontata da una chioma corvina che incornicia due occhi ruggenti su un incarnato diafano, dalla postura e dalla gestualità delle mani che anticipano e accompagnano la parola, protese verso il fedifrago Domenico che vuole sposare la ventenne Diana o concave a cucchiaio per condensare il disperato bisogno d’amore e di giustizia o che si acconciano nervose la vestaglia, stringendone la cintura per rinserrare in petto il tumulto di sentimenti che la travaglia.
Insieme al flusso di parole, le mani raccontano la solitudine e il coraggio, l’onestà morale e l’urgenza di imparzialità verso i figli “e figlie so’ tutte ffiglie, e so’ tutte eguale”, a scuotere le coscienze dei moralisti anni Quaranta.
Filumena Marturano, archetipo di donna dignitosa di alto profilo morale pur nella licenziosità del mestiere che ha esercitato per bisogno, è simbolo eterno della rinuncia femminile per il bene dei figli, madre per antonomasia nel teatro moderno.
La prima parte, in cui si svela l’inganno di fingersi moribonda per farsi sposare in articulo mortis da Domenico Soriano, vecchio cliente di cui da 25 anni cura casa e interessi, suscita qualche divertita risata per lo stupore dell’uomo e la complice accondiscendenza della servitù. L’annuncio dell’esistenza di tre figli di cui non vuole rivelare la paternità esigendo che Dummì li legittimi, appalesa la motivazione dello stratagemma: dare loro un futuro dignitoso.
A nulla valgono perbenismi e cavilli legali. Il desiderio di paternità e l’ammirazione per le qualità umane di Filumena che rievoca la supplica alla Madonna delle rose di proteggere i figli, fa riflettere e capitolare Domenico.
Liliana Cavani, affrontando per la prima volta una regia teatrale, si mantiene fedele al testo con un atto unico che tiene alta la tensione, puntando su un cast di interpreti per un allestimento corale, in cui ciascuno è protagonista con il dialetto, la mimica e un proprio assolo che strappa l’applauso.
La profondità del vissuto che Filumena ha conquistato in una vita di sottomissione e rinunce, Domenico la metabolizza tramite le rivelazioni, che scarnificano la sua coscienza sotto gli occhi dello spettatore. E Geppy Gleijeses, al quale da giovane Eduardo concesse di dirigere due sue opere, impersona con eclettico realismo i diversi passaggi emotivi dell’uomo, dallo stupore smarrito alla furiosa rivalsa fino alla commossa assunzione di responsabilità sentendosi appellare “papà”, arrogandosi il merito di una interpretazione autonoma rispetto al maestro.
Nunzia Schiano è la cameriera Rosalia Solimene, autentica messaggera dell’animo popolare partenopeo, irresistibile nel monologo sulla sua infelice esistenza. Mimmo Mignemi è il cocchiere che introduce la variante dell’inflessione siciliana, spassoso nella noncuranza dei formalismi domestici con la sua tazzulella ‘e cafè. Agostino Pannone, Adriano Falivene e Gregorio Maria De Paola sono i figli, Ylenia Oliviero è la fidanzata Diana, Elisabetta Mirra la serva Lucia e Fabio Pappacena l’avvocato Nocella.
Sobriamente d’epoca la scenografia ed eleganti i costumi di Raimonda Gaetani, mentre le musiche di Theo Teardo assecondano l’evolversi della vicenda.