Coreografo vincitore di numerosi premi in Italia e all’estero, Riccardo Buscarini (Piacenza, 1985) è un artista che si concentra sul cambiamento costante del suo approccio creativo alla coreografia e sulle sue possibili interazioni con altre forme d’arte. Buscarini arriva a ballare a diciassette anni, avvicinandosi al balletto e alla danza contemporanea studiando all’Accademia Domenichino da Piacenza sotto la direzione artistica di Giuseppina Campolonghi, Michela Arcelli e Elisabetta Rossi, per poi trasferirsi alla London Contemporary Dance School, The Place, dove si diploma nel 2009. Buscarini ha presentato le sue opere nel Regno Unito, Italia, Spagna e Svizzera, in teatri, spazi urbani, musei e gallerie d’arte. Nel 2010 ha ricevuto una borsa di studio danceWEB per Impulstanz, il Festival Internazionale di Danza contemporanea a Vienna in Austria e una delle sedici commissioni coreografiche del “The Place Prize”, Londra. Nell’aprile 2011 Buscarini vince il Premio Prospettiva Danza (Padova) con volta, frammento n. 1 della trilogia Family Tree, un progetto di Chiara Bersani. Nel 2011 Riccardo è uno degli otto Creatives in Residence presso The Hospital Club di Londra dove collabora con la stilista Brooke Roberts, per la quale dirige la sfilata (Wo)man + Machine parte di London Fashion Week. Il suo progetto 10 tracce per la fine del mondo vince il Fondo Fare Anticorpi 2012, un premio dedicato agli artisti emergenti dell’Emilia Romagna. Nel 2013 vince il prestigioso The Place Prize con “Athletes”, con costumi di Brooke Roberts ed è uno dei tre coreografi britannici coinvolti in ArtsCross, London 2013, un progetto internazionale di ricerca coreografica tra Regno Unito, Cina e Taiwan coordinato da ResCen (Middlesex University) e uno degli artisti coinvolti nel progetto europeo Performing Gender durante il quale realizza l’installazione “Blur”. Nel 2015 Riccardo prende parte alla residenza internazionale MAM-Maroc Artist Meeting a Marrakech durante il quale ha creato due installazioni esposte al Museo Dar Si Said. Nel 2015 crea un’opera per gli studenti della Scuola del Balletto di Toscana a Firenze e termina il quintetto “No Lander” con un tour inglese. Nel 2016 presenta “In Parting Glass”, una mostra in collaborazione con l’artista visivo Richard Taylor presso Summerhall (Edimburgo) e collabora con Annarita Papeschi e Vincent Nowak di Zaha Hadid Architects/Flow Architecture per la creazione di INTERTWINED, una installazione parte del London Festival of Architecture 2016. Partecipa a i’m NOT tino sehgal’ mostra inaugurale di Nahmad Projects, Londra curata da Francesco Bonami con “We All Need Fairytales” poi presentato nella variante We, Dreaming, a miart – fiera internazionale di arte moderna e contemporanea di Milano 2017. Lo scorso novembre ha presentato in anteprima mondiale al PimOff di Milano la sua ultima creazione “L’età dell’horror”, un duetto maschile su musiche di J.S. Bach. Dal dicembre 2011 al 2015 insegna coreografia e performance alla Birkbeck University di Londra. Ha guidato laboratori e masterclass in Italia, Regno Unito, Croazia, Belgio, Spagna, Svezia e Russia.
Carissimo Riccardo, innanzitutto parliamo della tua creazione “Silk” e delle sue due nomination ricevute alla Golden Mask di Mosca (miglior produzione e migliore coreografo). La cerimonia si svolgerà il 14 aprile al Nuovo Bolshoi. Quali sono le emozioni e le gratificazioni per un così prestigioso traguardo che sarà poi un altro punto di partenza nella tua giovane ma già internazionale carriera?
È un grande onore essere nella rosa dei nominati – e ovviamente una grande emozione scoprirlo. Il mio lavoro di insegnante e coreografo mi porta in Siberia dal 2014: inutile dire quanto la Golden Mask, l’equivalente del nostro David di Donatello, dedicato però nel suo caso a tutte le arti sceniche, sia importante per chi lavora nell’ambiente dello spettacolo in Russia, quello che io considero il tempio della danza. Per me è già un riconoscimento unico, davvero!
Ho avuto modo di vedere “Silk” e sono rimasto completamente affascinato dalla qualità e dallo studio del movimento che vanno oltre la danza. Un movimento che soddisfa il bisogno e mediante sé stesso articola un qualcosa di più profondo ed intuitivo dando così una svolta fondamentale alla poetica scenica della creazione. “Silk”, a mio avviso, si potrebbe condensare come “la proposizione artistica dell’esperienza nel vissuto” in quanto tu riesci, come nel recente “L’età dell’horror”, ad analizzare gli elementi come fossero una partitura totalizzante del gesto nello spazio, misurando minuziosamente ogni singolo elemento. “Silk” è un concentrato di parole di un discorso danzato! Che tipo di lavoro e di preparazione hai attuato per questa creazione?
La mia provocazione è: possiamo non essere autobiografici? Non narrativi? Da qualche tempo lascio razionalmente che il luogo dove mi trovo a lavorare entri a far parte dell’opera o semplicemente ne ispiri la creazione. In generale quello che profondamente muove il mio lavoro da dentro sono il concetto di necessità cinetica e di desiderio. Da qui si sviluppano gesti e una sorta di “presenza” caratterizzati da una densità più marcata. È successo a Firenze con Michelangelo (in un lavoro sugli allievi del Balletto di Toscana) e con i Giardini di Boboli con la creazione sugli allievi di Opus Ballet. Una delle ispirazioni di Silk è il paesaggio siberiano e un viaggio fatto nell’aprile 2015 sulla Ferrovia Transiberiana che attraversa sul suo percorso vastissimi territori innevati e boschi di betulle. I temi alla base di Silk sono il viaggio come comunicazione e scambio e l’attesa, interpretata come sospensione temporale. Chelyabinsk, la città dove ha base la Chelyabinsk Contemporary Dance Theatre di Olga Pona si trova su una delle rotte della Via della Seta. Silk è dedicato agli incontri che negli ultimi anni mi hanno fatto ritornare in questo luogo e che hanno fatto in modo che il mio percorso professionale si intrecciasse con quello dei miei colleghi russi. Il lavoro coreografico si è articolato sulla sospensione fisica, sul “corpo come aria”. In sostanza quindi abbiamo lavorato sul come dare l’illusione dell’assenza di gravità attraverso la creazione di una pratica fisica specifica per la creazione della qualità di movimento alla base di questo lavoro. Per la prima volta nella mia vita ho anche materialmente disegnato i costumi, delle “gabbiette” in tulle bianco.
A breve ci sarà la prima europea, a Muenster in Germania, e mi raccontavi che il lavoro verrà espanso in vista della sua presentazione a Mosca durante il “Golden Mask Festival”. Da quando ti conosco e seguo artisticamente ho apprezzato la peculiarità che ti contraddistingue e cioè che ogni tua coreografia non è mai finita, è un lavoro in perenne progressione, sempre pronto a trovare nuovi respiri per continuare nel suo cammino, o sbaglio?
Non si finisce mai di lavorare. Le idee cambiano, perché cambiamo noi. Credo sia così per la danza e per le arti in generale: il movimento – il nostro mezzo, il nostro pennello, la nostra pittura – deve essere ripetuto per essere ricordato, approfondito, perché conservi o aumenti il suo potenziale comunicativo. Non si arriva mai alla fine perché è il corpo che lo richiede: lo stesso movimento non sarà mai lo stesso perché nemmeno noi lo siamo. Il tempo è la nostra storia, siamo in costante evoluzione. L’aspetto più affascinante del movimento è proprio la sua qualità effimera, irripetibile, la sua unicità. E questo è e dovrebbe essere un valore inestimabile per il pubblico. Evviva ciò che non rimane e che deve essere percepito in quel preciso istante, perché è unico!
La tua formazione inizia a Piacenza presso la scuola diretta e fondata dalla Signora Giuseppina Campolonghi. Quali sono i ricordi e i momenti che custodisci gelosamente di quel periodo?
Che cosa posso dire? Sono stati anni di cui serbo amicizie profondissime. Un percorso alla scoperta del movimento, carico di fatica e allo stesso tempo di gioia nel fare progressi e nella scoperta della mia identità artistica. Ci sono molti ricordi indelebili, ma il più bello che ho dell’Accademia è quello di avere la possibilità di mettermi alla prova fin da subito sulla scena. È lì che si impara davvero.
Poi hai deciso di trasferirti a Londra scegliendo la disciplina contemporanea con un occhio particolare alle arti visive. Da dove nasce quest’esigenza?
Semplicemente dal fatto che la danza è e rimane un’arte che si percepisce con il senso della vista. In quanto arte visiva sento il bisogno di curarne ogni aspetto sensoriale, in particolare quello visivo. Da qui nasce la necessità anche di mettere la danza in relazione a spazi che esulino da contesti legati al concetto di “spettacolo”.
Il tuo primo lavoro coreografico a cosa si ispirava e dove è andato in scena?
Non saprei rispondere a questa domanda! Ci sono vari lavori che considero i “primi”. Primi perché era la prima volta che mettevo in scena qualcosa di mio (o in collaborazione con altri artisti) o primi perché mi trovavo a lavorarci fuori dalla scena solo come coreografo, o primi perché era la prima volta che collaboravo in un diverso contesto artistico – come l’architettura ad esempio. La mia opera che sento più “prima” di tutte è forse “Athletes”, del 2012, un trio su cui ho lavorato da solo e che ancora dopo anni trovo molto riuscito. “Athletes” osserva le idee di progresso e di competizione, proprio come ci suggerisce il titolo, traducendoli in un lavoro di movimento sul corpo come macchina in una estetica retro-futurista ispirata allo sci-fi anni 50/60 – incluso 2001: Odissea nello spazio.
Dovi trovi la fonte d’ispirazione per le tue coreografie/performance?
C’è tanto di personale, il mio punto di vista sul mondo o uno stato emotivo. A volte è un concetto che attraverso un gioco di parole diventa titolo, a volte semplicemente un colore e i suoi molteplici significati. Di base ciò che mi affascina di più e prendo quasi sempre come stimolo è l’idea di conflitto e insieme di ambiguità tra elementi contrastanti.
Nei tuoi lavori cosa desideri lasciare in eredità agli spettatori?
Esattamente quello che ho detto giusto ora: una visione personale o uno stato emotivo che possano andare oltre alla reazione immediata e continuare nella memoria dello spettatore. Credo sia la nostra missione da artisti e persone: cercare di essere ricordati perché non sia vano quello che facciamo. In questo senso l’esperienza estetica, qualsiasi essa sia, quando è profondamente personale, può avere un valore universale e in un certo senso anche spirituale.
C’è un sottile filo che lega una tua creazione all’altra?
Mi piace pensare che le questioni irrisolte di un lavoro diventino le domande su cui si basa il processo seguente.
Tra i tanti coreografi ed artisti del passato, c’è qualcuno che ha influito in maniera determinante sul tuo stile? Mentre dell’attuale scena a chi rivolgi il tuo sguardo con più interesse?
L’artista che più mi ha segnato è William Forsythe. La cosa che più mi colpisce di lui è proprio la continua evoluzione della sua poetica – una ricerca del tutto personale che parte dal balletto classico ed arriva poi all’installazione – la sua “sfida” a non pretendere mai una firma coreografica e, infine, l’aspetto umano ed emozionale velato ma sempre presente nel suo lavoro. Trovo Forsythe una persona grandissima prima che un grandissimo artista.
Quanto ti lasci trasportare dalla partitura musicale per dar vita al gesto?
Molto poco! Creo per immagini, il suono è di solito un accessorio che uso per generare una particolare atmosfera o per manipolare il significato attraverso un contrasto, una giustapposizione. Nonostante arrivi dopo nel processo creativo, la musica rimane una delle mie principali fonti di ispirazione. Il mio ultimo lavoro, un duetto dal titolo “L’età dell’horror”, è nato proprio in questo modo: da un’immagine di unione (i danzatori si tengono per mano per tutta la coreografia) e dal suo opposto (la fuga) sono arrivato all’uso dei contrappunti de “L’arte della fuga” di J.S. Bach, una partitura a cui da sempre mi sarei voluto avvicinare, sia dal punto di vista musicale sia dal punto di vista del significato (in questo caso l’ambiguità della parola “fuga” e le sue possibili associazioni).
Che valore dai all’improvvisazione in sala danza con i tuoi collaboratori?
L’improvvisazione guidata è la base del mio processo creativo. L’improvvisazione rende possibile il processo di “fisicalizzazione” da idea a movimento. Da questo studio poi si articola passo dopo passo il processo coreografico. Alcune cose funzionano, altre no… così si va avanti selezionando materiale e componendo gradualmente la partitura di movimento.
Quando cerchi nuovi danzatori, che cosa ti colpisce maggiormente in un/a candidato/a? Da dove parti? dall’interiorità, dalla sensibilità, dalla capacità di abbandonarsi al movimento, dall’originalità nel porsi?
L’ascolto, delle idee, dell’altro… è la sensibilità dell’ascolto la cosa che più sono interessato a vedere in un artista e anche in una persona. Ascoltare è difficile e nutro molta stima per chi riesce a farlo.
Quanto è importante l’ascolto del proprio corpo e come ti poni in relazione ad esso?
È la base di tutto: quando si studia e quando si crea in sala. È attraverso l’ascolto che riusciamo ad affinare la nostra percezione, come danzatori e come coreografi. È fondamentale connettersi al corpo e al movimento per poter approfondire le meccaniche e dinamiche del movimento.
Com’è nata la tua passione per la danza? Perché hai deciso di intraprendere questo percorso da bambino?
Mi è sempre piaciuto muovermi ma sono arrivato alla danza a diciassette anni. È allora che ho iniziato a studiare danza classica e contemporanea all’Accademia Domenichino da Piacenza. Mi piace però pensare che il mio incontro con il teatro sia avvenuto quando, all’età di cinque anni ricevetti per Natale un piccolo teatro dei burattini con cui avrei raccontato di lupi e principesse per più di dieci anni… Vedo quel “giocare” come un importante momento di formazione.
Com’è strutturato il tuo percorso di lavoro a contatto con gli allievi e futuri danzatori?
Non mi definisco mai insegnante: il mio lavoro di formazione si basa sull’improvvisazione come pratica creativa. Quello che faccio in sala è dare costantemente stimoli senza imporre una particolare estetica sui partecipanti. In questo senso mi propongo come coreografo e in primis come un mentore, un coach. La stimolazione creativa è al centro della mia pratica.
Da danzatore a coreografo. Per molti ballerini è uno sviluppo graduale e completo che avviene in modo del tutto naturale. Per te cosa ha significato e da dove è nata questa esigenza?
Anche se tutt’ora mi capita di stare in scena, personalmente non mi sono mai sentito un danzatore. Non ho praticamente mai ballato in nessuna opera che non fosse mia. Nel mio caso credo che sia stata una questione di volere che la mia voce personale fosse ascoltata. Il danzatore e il coreografo sono due mestieri molto diversi che richiedono capacità e che si assumono responsabilità diversissime.
Sei stato chiamato “danz’autore”, ti piace come definizione?
No! Primo, è un’espressione che non esiste in nessun vocabolario. Di questo tipo di neologismi “di settore” mi fido molto poco. Secondo, credo che sia un’espressione di comodo e riduttiva nei confronti del mestiere sia di coreografo che di danzatore che a mio parere non eleva ma anzi in qualche modo sminuisce il valore di queste due professioni.
Cosa ha significato, per te, insegnare alla “Birkbeck University di Londra”? Qual è stato il punto di forza di questa celebre istituzione nella formazione artistica?
Purtroppo il nostro corso alla Birkbeck fu chiuso nel 2015 a seguito della riforma che confermò l’aumento delle tasse universitarie nel Regno Unito. Fu una vera delusione: quello alla Birkbeck era l’unico corso serale di Londra – forse anche l’unico dell’intero paese a dire il vero – ed aveva un’offerta formativa di alto livello.
Vivi a Madrid, insegni spesso a Londra ma non dimentichi Piacenza, città dove risiedono i tuoi affetti e i tuoi maggiori ricordi. Che tipo di collaborazione porti avanti con le istituzioni piacentine?
Piacenza è casa. Nell’ultimo anno ho avuto la bellissima opportunità di presentare il mio lavoro “No Lander” in chiusura della stagione di balletto e danza del Teatro Municipale e ho iniziato a riprendere la passione per l’Opera affiancando Giuseppina Campolonghi in due regie, una per il “Don Pasquale” di Donizetti e una per “Il barbiere di Siviglia” di Rossini, due produzioni dell’Associazione Amici della Lirica di Piacenza. È bello tornare a casa ed essere coinvolto in progetti da cui si può imparare cose nuove, e allo stesso tempo connettendomi alle radici culturali del mio luogo natale.
Durante gli anni della tua formazione alla “London Contemporary Dance School” quale fermento artistico hai trovato e riscontri ancora oggi nel Regno Unito?
Il Regno Unito ospita, accoglie la novità e la promuove. Questo vale per tutte le arti e tutte le loro possibili diramazioni e collaborazioni. Ci sono un’apertura e una curiosità molto forti verso l’originalità intrinseca che l’individuo porta con sé.
Mentre a Madrid com’è vissuta la scena contemporanea e la sperimentazione?
Madrid la conosco ancora poco, la frequento assiduamente da un anno. Gli amici artisti che vivono e lavorano in questa città producono opere con una forte carica emotiva e in generale hanno tutti un linguaggio molto personale.
Negli ultimi anni, ti sei imposto unanimemente anche grazie al The Place, come una delle voci artistiche più interessanti tra i giovani italiani all’estero. Cosa significa per te il sostantivo “creatività”?
Grazie per il complimento. Per me, in questo momento storico e culturale, la creatività è un giusto equilibrio tra ricerca, intuizione e gioco che richiede studio e disciplina, ma soprattutto molta onestà intellettuale.
Riccardo stai vivendo un momento ricco di grandi successi. Prossimamente porterai in scena nuove creazioni sia in Italia sia all’estero. A Piacenza presso il Teatro Gioia presenterai “Io vorrei che questo ballo non fisse mai” che ti vedrà oltre che nelle vesti di coreografo nuovamente in quelle di danzatore. Mi vuoi dare qualche anticipazione?
“Io vorrei che questo ballo non finisse mai” è una nuova creazione in collaborazione con Sabrina Fontanella e Vincenzo Verdesca, artisti rispettivamente di cabaret e burlesque che debutterà il 20-21 aprile 2018 al Teatro Gioia, la ex chiesa dei Gesuiti convertita ora sapientemente in un teatro. L’evento è un tributo al grande cinema neorealista italiano attraverso il linguaggio del movimento e, ovviamente, del cinema, che avvolgerà il pubblico e lo coinvolgerà direttamente… Non dico di più, consiglio solo di portarvi le vostre migliori scarpe da ballo!
Mi racconti, invece, a tutto campo, le tue ultime collaborazioni?
Nell’ultimo anno e mezzo ho lavorato con due architetti per una installazione al “London Festival of Architecture” e ho stabilito una interessante collaborazione con “Nahmad Projects”, una nuova galleria di Londra con cui ho lavorato anche a miart lo scorso marzo. Una collaborazione di cui sono molto fiero è quella con il compositore Sebastiano Dessanay di cui ho diretto l’opera contemporanea “The Cry of the Double Bass”, sempre a Londra l’estate scorsa. Il mese prossimo apparirò nel primo di una serie di documentari dedicati alle Ville Medicee con “Blur”, l’opera nata nella cornice del progetto europeo “Performing Gender”. Sono tutte esperienze molto importanti da cui traggo stimoli forti per il futuro. Il progetto di cui sono più orgoglioso però è quello dedicato a mio nonno Sergio Tagliaferri, pittore vivente le cui opere non vengono esposte da quarantacinque anni e su cui sto dirigendo un progetto di archiviazione e documentazione con vari collaboratori tra cui il regista Stefano Sampaolo che sta producendo un breve documentario su di lui. Osservare il suo modo privato, intimo di lavorare e la sua continua ricerca, durata una vita intera, mi ricorda che l’umiltà, la spontaneità e la costanza sono alla base dell’artigianalità e l’artigianalità alla base dell’arte.
Per concludere, caro Riccardo, sei cresciuto respirando arte anche grazie ai dipinti di tuo nonno, ma l’aver scelto la danza come compagna di vita in quale maniera ti ha arricchito umanamente ed educato inequivocabilmente alla “bellezza”?
Mio nonno mi ha educato all’ascolto e alla sensibilità. La danza mi ha educato al rigore assoluto, un rigore senza ragioni e senza scopi che ha come fine la bellezza. Mi viene in mente un sentiero di montagna da cui il paesaggio diventa progressivamente più bello quanto più si sale. La bellezza la si cerca – e la si incontra? – su un cammino di impegno e non senza fatica.
riccardo buscarini
choreographer and installation artist