Un testo che enuclea gli aspetti del disagio relazionale di un uomo apparentemente dedito alla cura dei rapporti familiari.
Sirio si rivolge incessantemente alla madre, mentre spazza con noncurante eleganza intorno alla sua tomba e si sistema compulsivamente la sgargiante cravatta rossa che gli sguscia fuori dal cappotto. Affiorano aneddoti e frustrazioni infantili causate dai ripetuti rimproveri e dallo scarso amore materno nei suoi confronti. Infine, bacia la foto e depone sulla lapide un enorme spinosissimo cactus.
Si delinea il suo identikit di uomo brillante, raffinato, vanitoso, attento alle dinamiche emotive, dall’incerta identità sessuale. Si piace, ma non si identifica, è ondivago nell’abbigliamento e nella percezione di sé. Adolescente bullizzato, figlio non amato, attore mancato, deus ex machina cinicamente sarcastico sul perbenismo parentale e l’immobilismo sociale, per liberare se stesso è costretto a modificare il contorno.
Lo psicologo a cui racconta i suoi turbamenti, con qualche citazione di Woody Allen, non profferisce verbo ma prende appunti compulsivamente, fino a sbottare in una fragorosa e inaspettata risata che contagia il pubblico, e che lo stroncherà.
Anche l’anziano padre lo lascia orfano, e Sirio si consola affermando che in fondo è meglio così: morta la moglie era rimasto spaiato e quindi inutile, come un’oliera dopo la rottura dell’acetiera.
Resta aperto il conflitto con il fratello Saverio, dissennatamente fidanzato con una donna-giraffa che lui disapprova ritenendo che gli abbia alienato l’amore fraterno.
Abbandonato anche dal pesce rosso, cosa farà Sirio per placare i suoi travagli? Alla fine, un uomo prenderà un volo per Singapore. Chi? Perché?
Il testo di Daniele Falleri colpisce con una immediatezza incisiva e sorprendente nella circolarità delle dinamiche familiari. Esibisce allo spettatore reconditi meandri della complessa personalità del protagonista, lucido nell’analisi e folle nella soluzione.
Il monologo, disinvolto e rigorosamente cadenzato, attinge all’esperienza del protagonista che, in alcuni aspetti, è l’esperienza di ciascuno, avvincente e grottesca, con alcuni passaggi di schietta comicità.
La messinscena con la regia dello stesso Falleri, è articolata in quadri che evidenziano le diverse facce della poliedrica personalità di Sirio, problematica nei confronti di se stesso, dei familiari e del mondo.
Urbano Barberini domina la scena e la vicenda. Con una magnifica performance ci rende un protagonista stravagante, sfrontatamente esibizionista, autoreferenziale, disinvolto nel gioco teatrale che gli impone una dentatura sporgente che ne sacrifica l’eloquio, con movenze da dandy raffinato. Un pezzo di bravura che tiene desta l’attenzione e la curiosità.
Sergio Valastro gli fa da supporto nelle silenziose figure degli altri personaggi.
Franca Valeri afferma che “il testo è nato da un accordo profondo tra l’autore e l’attore, un sodalizio che ha reso vive tante classiche e fortunate esperienze del nostro affascinante lavoro. Lo spettacolo è molto comico e molto crudele, molto quotidiano e abbastanza surreale per privilegiare nello spettatore il divertimento come sarebbe la formula della vera comicità̀ teatrale”.
Un noir psicologico da morire dal ridere. Letteralmente. In sala i sopravvissuti applaudono copiosamente.