Andiamocene.
Non si può.
Perché?
Aspettiamo Godot.
In queste quattro battute è riassunto il significato di un’opera che tutti, almeno una volta nella vita, dovremmo vedere.
Samuel Beckett riassume in questo dramma dell’assurdo l’esistenza dell’uomo moderno, permeata di quel nonsense così ironicamente amaro e attuale. In platea si riceve uno schiaffo sonoro, rifilato con il sorriso; ed è forse questo il pregio più grande di un copione che potrebbe esser stato scritto ieri: la parabola dell’average man che attende qualcosa, qualcuno, senza capire che quell’attesa è la vita stessa, mentre gli scivola tra le mani.
La nostra stessa natura ci porta a vivere nell’attesa di qualcosa: il week end, le vacanze, le feste, l’accredito dello stipendio, l’ora del pranzo, il concerto per il quale abbiamo già acquistato il biglietto, il ritorno dell’amato/a, la fine della giornata lavorativa.
Usiamo il cellulare in continuazione per “passare il tempo”, siamo circondati di prodotti di intrattenimento di qualsiasi tipo, abbiamo inventato la parola ‘passatempo’, per descrivere quei mezzi che ci consentono di distrarci dalla noia.
Siamo spesso annoiati, ansiosi di “far passare il tempo”, che scorre sempre troppo lento, ma non è in fin dei conti proprio quel tempo che ci separa, inevitabilmente, dalla fine della nostra esistenza?
Eppure la morte non la vediamo incombere su noi stessi, se non come un evento distante, colmato da tutto il tempo del mondo, tanto che: “se ci impiccassimo?”, chiede Estragone a Vladimiro,il quale risponde: “sarebbe un modo per farselo venir duro”, come se stesse acconsentendo a fare una passeggiata.
Questa passeggiata, spesso, la riempiamo di metafisica, immaginando paradisi e inferni che nessuno ha mai visto davvero, salvatori di anime e demoni che altro non sono se non il nostro inconscio, una proiezione astratta della nostra natura umana.
Insomma, Godot, che rappresenti Dio, la morte, o l’inevitabilità dell’attesa, è una figura presente nella vita di tutti noi. Consapevoli o meno di quello che ci accade. Noi, unici esseri pensanti ad abitare questo pianeta, eppure condannati a non trovare un senso alle nostre esistenze.
Questa produzione dell’Elfo Puccini, in scena fino al 4 febbraio, con la regia di Alessandro Averone, è essenziale ma perfetta, nelle sfumature che il regista ha inserito come elementi di contemporaneità, pur senza snaturare minimamente l’originalità dell’opera.
Il cast (Marco Quaglia, Gabriele Sabatini, Mauro Santopietro, Antonio Tintis, Francesco Tintis) è di alto livello e orientato alla perfezione secondo l’idea del regista.
Insomma, per una sera, mettete da parte gli altri ‘passatempo’ e andate a teatro: ne sarà valsa la pena. Anche se proverete un po’ di noia e aspetterete, in qualche momento, la fine dello spettacolo, uscirete dalla sala arricchiti e felici di aver assistito ad un’opera di così grande valore, messa in scena con bravura e talento.