Ogni artista degno di questo nome si chiede, prima durante e soprattutto dopo aver messo su uno spettacolo, se ha raccontato quello che voleva raccontare, e se il suo punto di vista ha rispettato il tema affrontato. Quando poi si tratta di diritti, di attualità, di umanità, la materia delicata impone una cura particolare. Marco Baliani e Lella Costa riescono a dar vita a un lavoro completo e complesso sulle migrazioni dell’uomo: Human è uno spettacolo che non vuole nascere e morire sul palcoscenico, ma scuotere lo spettatore e seguirlo fino alla macchina, fino in casa, fino al prossimo telegiornale. Di migranti, profughi e stranieri si parla ogni giorno, tanto da essere ormai assuefatti a qualunque giudizio sul tema. Ciascuno di noi crede di avere un’opinione solida e di conoscere quelle di chi ci circonda, ma forse non ci soffermiamo mai davvero a pensare quanto la questione ci riguardi da vicino.
«Non vogliamo che lo spettatore se ne vada solo più consapevole e virtuosamente indignato o commosso. Vogliamo spiazzarlo, inquietarlo, turbarlo, assediarlo di domande. E insieme incantarlo e divertirlo», questo dicono gli autori. Mischiando la mitologia alla contemporaneità, la sabbia e i datteri del Nord Africa a quelli del Medio Oriente, riuniscono tutti gli uomini sotto il sentimento che li porta a essere solidali con il prossimo. E dopo averlo affermato, lo negano. Un sentimento, l’umanità, che stiamo perdendo perfino e soprattutto noi occidentali, che ci vantiamo di una storia civile ancora impareggiata. Human spettacolo riesce perché è la conclusione di un progetto Human che la squadra ha curato per mesi, lasciando il tempo alla materia di lavoro di entrare nella pelle di chi poi lo avrebbe donato al pubblico. Accompagnati sul palco da quattro giovani bravi attori (David Marzi, Noemi Medas, Elisa Pistis e Luigi Pusceddu) Baliani e la Costa toccano il tasto dolente della dilagante ipocrisia di massa, che ci rende sconcerti a ogni sbarco inquadrato dalle telecamere, ma pronti un attimo dopo a pensare a quelle persone come a un problema. La partecipazione al dolore dell’altro si trasforma troppo presto in un’egoistica visione delle cose.
Con quel tanto di ironia che l’arte concede anche all’impegno civile, Human ci pone, impietoso, davanti alle nostre contraddizioni. In una rassegna disordinata e minuziosa di storie fuori dal tempo e di scene quotidiane, appare chiaro e desolante il conflitto tra l’individuo e il suo prossimo, tra la parola e l’opera. Cioè tra quello che pensiamo, o crediamo di pensare, e quello che realmente facciamo per gli altri. L’idea che abbiamo di un uomo che sbarca nel nostro paese disperato e l’idea che ci facciamo dello stesso uomo quando dorme appoggiato al muro di casa di nostra o quando parla a telefono sul sedile accanto al nostro a bordo di un regionale. Un divario che pare non curarsi della storia, dimenticarsi del passato, e rimarcare invece la nostra incapacità di contestualizzare, di alzare lo sguardo oltre il confine del proprio quartiere e afferrare un’epoca iniziata da anni, che non accenna a finire.
C’è tanta universalità in Human, ma anche tanta Italia, soprattutto tanta Sardegna, terra buona e dura che di migrazioni ne sa qualcosa. C’è la musica viva di Paolo Fresu e c’è il colore purpureo delle scene e dei costumi di Antonio Marras: né bianco né nero, un rosso sangue che ci accomuna e ci lacera. C’è un’epoca, la nostra.
Human è uno specchio in cui tutti dovrebbero riflettersi e riflettere quanto prima.