La società borghese ottocentesca passata al vaglio delle proiezioni psicologiche che si annidano nelle pieghe dell’essere quando si manipolano i rapporti di forza codificati dalla società.
In un profluvio di drappeggi rosso sangue naufraga un uomo sopraffatto da una durissima lotta di potere, in un conflitto di coppia che mette in crisi tutte le relazioni familiari. Una divergenza di opinioni circa gli studi della figlia innesca una contrapposizione di ruoli in cui il padre, legalmente investito della responsabilità decisionale in un’epoca nella quale alla donna competeva esclusivamente allevare i figli ma non orientare le loro scelte, è costretto a soccombere davanti all’intransigenza della moglie che, per riappropriarsi del destino della figlia, gli insinua il dubbio di non esserne il genitore biologico.
Il capitano di cavalleria Adolf è uomo positivista, studioso delle stelle e rispettoso delle regole e non nutre dubbi sulla sua paternità, nonostante la bambina sia nata dopo che egli era stato in fin di vita rischiando di lasciare la moglie priva di eredità in assenza di figli.
In un contesto storico in cui la genetica non forniva test di paternità, il riconoscimento di questo status era delegato alla legge in forza della quale il padre esercitava il potere legale sulla prole nata dal matrimonio.
Contestatrice ante litteram, Laura non si rassegna, convinta che “i figli sono della madre”. Non potendo far disconoscere la paternità del marito, ne demolisce la psiche insinuandogli il dubbio e quindi facendolo interdire perché dubita della sua paternità e della fedeltà della moglie. Il dubbio, infatti, gli scava una voragine nell’anima, il ruolo sociale e familiare vengono sgretolati, onore e rispettabilità evaporano e l’uomo regredisce allo stadio infantile dentro una camicia di forza, rannicchiandosi nel grembo della balia.
Mancando la prova biologica, il protagonista perde la ‘certezza ontologica’ dello statuto virile della paternità, afferma il regista Gabriele Lavia.
“Quando guardo un uomo non posso impedirmi di pensare che sono più intelligente di lui” afferma Laura, quasi il manifesto dell’emancipazione femminile.
“Un capolavoro di dura psicologia” lo definì Nietzsche, “scritto con un’ascia, non con la penna” dichiarò lo stesso Strindberg.
Scritta nel 1887, questa tragedia fa trapelare riflessi autobiografici del nevrotico rapporto col lato femminile dell’autore. Attraverso il pianto di Adolf, che afferma fra i singhiozzi che anche un uomo ha il diritto di farlo senza vergognarsene, il drammaturgo si confronta con la sua inquieta parte femminile.
Gabriele Lavia realizza la terza messinscena di questo dramma fissando sulla figura maschile il fulcro delle dinamiche relazionali: Adolf crede nel potere della legge di regolare le umane esistenze e ciò che si sottrae alla legge è destabilizzante. Le altre figure sono funzionali alla sua follia perché dovranno scardinare l’architettura di incrollabile fiducia nella legalità.
La scenografia creata da Alessandro Camera colloca un salotto borghese in un ambiente con parati e pavimento di velluto rosso e mobili sghembi che preludono al tragico disfacimento dell’instabile impalcatura familiare. Nel secondo atto sparisce il mobilio e in una maestosa cascata di sanguigni drappi affoga la mente disorientata di Adolf che morirà accasciato sul baule dei libri e dei giochi, accanto al telescopio dal quale scrutava il cielo.
Gabriele Lavia, dalle speculazioni dialettiche dell’inizio alla regressione infantile del finale, interiorizza tutti i graduali passaggi della discesa nell’abisso della follia con magistrale naturalismo. Federica Di Martino nel ruolo di Laura ingaggia la sua lotta titanica con subdola spietatezza, pur mantenendo una posizione di retroguardia rispetto al protagonista-mattatore. La balia di Giusi Merli ha una recitazione cantilenante, quasi non avesse mai smesso di cantare ninnenanne al suo bambino. Gianni De Lellis, Michele Demaria, Anna Chiara Colombo, Ghennadi Gidari e Luca Pedron gli altri interpreti.