Sutor, dunque. La compagnia Teatro Immediato ci ha abituato all’incisività “classica” di titoli brevi, che nominano il protagonista o denominano la situazione drammatica. Come Caprò e come Gyneceo, primo e secondo atto di una trilogia che ora con Sutor si chiude e nel concludersi trova compimento.
Si compie in Sutor la formalizzazione di un dialogo che in Caprò veniva inglobato tra le maglie di un monologo dolente, o di un soliloquio che tentava disperatamente di recuperare dal passato voci, corpi, persone, e poi ore, sequenze di immagini, pezzi di vita scivolati irrimediabilmente via. In pari misura, trova respiro effettivo in Sutor il congegno di un finale sfumato, già percorso in Gyneceo, dove il dolore si sublima, si perdona, trova un esito lirico ed estetico tramite il dialogo.
La produzione di Teatro Immediato fonda fortemente su questo aspetto confessionale della parola drammatica, sia quando decide per la forma apparentemente solipsistica del monologo che quando apre formalmente all’iterazione tra più voci. Sutor conduce il dialogo dentro la forma di una relazione tra pari, ed in ciò completa la parabola drammaturgica di una trilogia che accompagna la parola attraverso i diversi stadi della gestazione dialogica. In Sutor il dialogo coincide con l’azione: si tratta di una legge che in fondo a teatro vale sempre, ma in un lavoro come questo accade che la forma della recitazione, pur nel suo “mandato di simulazione”, non cerchi mai di dissimulare i lineamenti di questa sproporzione. Si innesca allora una spirale che lancia il teatro ai confini dell’arte, la rappresentazione verso la rivelazione.
I due fratelli, i due coprotagonisti di Sutor non si spostano di un passo dalle loro rispettive postazioni di palcoscenico: due seggiole di legno e paglia, fissate ai lati della porta di una vecchia bottega da calzolaio. Allo stesso modo – per questo stesso motivo – la porta alle loro spalle non viene mai varcata, mai violata. La fissità della situazione instaura una vera e propria sacralità della scena in ciascuna delle sue componenti, ma lo fa per pura inerzia, senza che i personaggi si adoperino a costruire la minima solennità. Anzi, il discorso si impantana a lungo nel vicolo cieco di tautologie gustosamente anti-eroiche. E così avviene per gli altri segni del quadro, fortemente evocativi ma sottratti ad ogni melenso languore: i gesti ripetitivi di un mestiere antico, le curve lise degli attrezzi penduli, il tempo dilatato che si condensa attorno ai corpi chini di due artigiani consanguinei. Un
concerto di vuoti che riempie la scena, che dà spettacolo di sé, inglobando l’azione in una posa densa, perfettamente autonoma, per nulla orfana ed in nulla mancante. Ma non siamo mai alla retorica di un “piccolo mondo antico” – perduto o in via di estinzione – imbellettato e messo in posa per una fotografia di rito.
La drammaturgia di Vincenzo Mambella converge per inclinazione naturale verso le figure umili e le vicende veraci alimentate da un humus territoriale di ricordi e di fatti reali, visti o saputi per caso, per racconto o per confidenza. Ma ciò che conta è che in questo cosmo sapienziale, carico di suggestioni materiche e di espressività arcigne, la macchina teatrale della compagnia pescarese reperisce semplicemente delle storie che si prestino ad un lavoro di scavo: storie profonde quel tanto che basta per contenere una zona non vista, un seconda vita o un tempo segreto nel quale si è prodotto uno strappo. Perché si vive nonostante dolori lancinanti, disumani per definizione eppure umani allo stesso tempo. Umani per forza, per necessità.
Ecco che allora è possibile parlare anche della morte, perché è la vita ad approssimare continuamente questa distanza che pure paralizza pensiero e parole. Perché la vita familiarizza regolarmente il nostro respiro con il dolore, impastando leggerezza e speranza con l’affanno e la ferita.
Ecco che allora parlare della morte diventa necessario, ma bisognerebbe farlo come si parla del tempo che farà, come il tempo che sarà, inesorabile, anche senza di noi. Anche senza chi c’è sempre e c’è sempre stato, come un fratello con cui si sono condivise tutte le età di una vita ordinaria. Come un fratello, testimone naturale della tua condizione di figlio, di messo al mondo.
Questa vertigine di significati si apre nella stasi caleidoscopica di Sutor e percuote sordamente l’intera durata dello spettacolo, che incede con il passo paziente del lavoro artigianale dal riso al pianto, fino alla soglia di una dimensione sospesa in cui gli opposti si impastano e non si distinguono più. Diventa buio se si decide di anestetizzare la paura e di avvelenare il dolore. Ci si può solo accompagnare oltre quella soglia, tenersi stretti, come fratelli.
Da vedere!
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CREDITS:
SUTOR
Testo Vincenzo Mambella
regia Edoardo Oliva
con Edoardo Oliva, Vincenzo Mambella
scenografia Francesco Vitelli
luci e fonica Black Service
organizzazione Giulia Oliva, Valeria Ferri
ufficio stampa Maurizio Di Fazio
produzione Teatro Immediato