Principalmente scrivo.
Ascolto storie, le cerco in giro, mi ci perdo lasciando briciole per riuscire comunque a ritornare a casa.
Le scrivo lunghe quando scendo nelle stanze più interrate e diventano libri.
Le scrivo allenando il muscolo della curiosità e diventano editoriali e articoli.
E poi le racconto, sui palchi, con il mestiere del teatro che è il mestiere più bello del mondo.
E non sopporto gli indifferenti, mai, per niente.
(Giulio Cavalli)
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È andato in scena al Teatro dell’Acquario di Cosenza “Mafia, maschere e cornuti” di e con Giulio Cavalli. Si tratta di un monologo autentico, una confessione, una delucidazione autentica sulla contemporaneità della mafia.
È teatro vivo, toccante, coinvolgente.
Giulio Cavalli ci fa ridere, ci commuove, ci fa riflettere ci fa indignare.
Giulio Cavalli è attore e autore teatrale da tempo minacciato dal potere e dalla mafia, vive sotto scorta per la sua attività antimafia. È un giullare odierno, e senza l’ausilio di costumi e scenografie recupera proprio dalla tradizione giullaresca, rinverdita e rinvigorita negli ultimi decenni del XX secolo da Dario Fo, uno dei modi cardini del teatro popolare: porre alla berlina i potenti con lazzi e sberleffi per smitizzare tutto quello che “ci fanno credere invincibile ed invece non lo è“.
Lavorando soprattutto sulla parola Cavalli, propone un teatro diretto, scomodo, che dà fastidio. Seduti in platea le parole arrivano dirette, stridenti, fortissime.
“La parola contro le mafie funziona!” commenta l’attore al pubblico e a sè stesso.
Dalla lezione dei giullari del ‘500 abbiamo imparato che la risata è l’arma più potente contro i potenti e i prepotenti: quando il potere è incapace di governare rispettando le regole teme la parola dei giullari perché ha bisogno di nascondere le proprie impudicizie. Le mafie, da sempre, sono un’incrostazione di potere che sopravvive grazie (anche) alla proiezione che riescono a dare di se stesse; ma quanto c’è di vero nella narrazione mafiosa (e di chi nel raccontarla finisce per celebrarla con un concorso culturale esterno) che quotidianamente ci viene proposta? Siamo sicuri che Riina (l’uomo che sognava di mangiare carne, comandare carne e cavalcare carne) potesse tenere da solo sotto scacco un intero Paese? E cosa ci dice lo scalcagnato covo di Provenzano?
Ripartendo dallo spettacolo “Nomi, cognomi e infami” (che ha girato l’Italia per ben 10 anni con oltre 500 repliche complessive) Giulio Cavalli smonta l’onorabilità mafiosa delle nuove leve raccontandone i vizi privati e smontandone l’onore. Ci sono i mafiosi surgelati che a Alcamo si incontrano nella cella frigorifera di un negozio di ortofrutta sperando di non essere ascoltati; i bambini di ‘ndrangheta che scrivono lettere in cui sognano di “diventare boss come papà”; c’è il camorrista che si traveste da donna per coprire la propria latitanza; i fratelli Marchese (Cosa Nostra) che pensano di uccidere i genitori dell’amata di uno dei due per aggirare la norma che impedisce a un uomo d’onore di sposare una donna con genitori separati (ma non orfana); c’è il padrino che autorizza una storia di corna per “liberare” uno dei suoi picciotti; c’è il patetico giuramento mafioso con cui si viene “combinati” e molto altro. Ripercorrendo le operazioni antimafia degli ultimi anni “Mafie, maschere e cornuti” racconta la tragica comicità di una mafia che svelata non può fare così paura. Perché ridere di mafia è antiracket culturale. E le mafie, come tutte le cose terribilmente serie, meritano di essere derise
Tutto lo spettacolo ruota attorno a una nota considerazione di Mark Twain, citata come un mantra da Cavalli durante lo spettacolo: “Non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo è”. Ed è così che figure come Riina e Provenzano vengono naturalizzate, vengono ridotti ad infimi fuggitivi, che vivono nella loro sporcizia e limitatezza mentale. Non solo la giustizia dunque, ma anche una risata fa male ai detentori del potere.
Ripercorrendo le operazioni antimafia degli ultimi anni, servendosi del teatro come antiracket culturale, l’attore racconta la tragica comicità di una mafia che, svelata, non può fare così paura.
“Ridere della mafia è antiracket culturale: ogni risata strappata al pubblico è una forma di antimafia sociale, di ribellione civile”, ma d’altronde eccellenti predecessori già lo avevano detto: “una risata vi seppellirà”.
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Giulio Cavalli
attore, regista, giornalista e scrittore ha iniziato l’attività teatrale formandosi nella Commedia dell’Arte. Tra i suoi lavori più importanti ci sono Linate 8 ottobre 2001 (che ha debuttato al Piccolo Teatro di Milano), Kabum! (giullarata sulla resistenza con la regia di Paolo Rossi), Benvenuta Catastrofe (con la regia di Dario Fo). Negli ultimi anni si dedicato al tema delle mafie (dal processo Andreotti, con la collaborazione drammaturgia di Gian Carlo Caselli fino alla vicenda di Marcello Dell’Utri). Con la giullarata Nomi, Cognomi e Infami (di cui questo spettacolo è la naturale prosecuzione) ha girato i teatri, le piazze e le scuole in più di 500 repliche.
Ha vinto il premio Fava Giovani nel 2009, il premio Borsellino nel 2012 e il XXIII Premio internazionale Rosario Livatino-Antonino Saetta-Gaetano Costa nel 2017.
Scrive per Left, Fanpage e collabora con L’Espresso.
Ha pubblicato libri per Chiarelettere, Rizzoli e Verdenero. Il suo ultimo romanzo è Santa Mamma in uscita per i tipi di Fandango nel marzo 2017.