con Giuseppe Scordio e Paola Roberti
Alitia Ginevra Mazzoni e Paolo Grassi
disegno luci Luca Lombardi
produzione Spazio Tertulliano
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La scena sembra in attesa, prima che la tragedia inizi è già pregna di quella tensione che precede e accompagna tutta la vicenda. Un urlo la squarcia, con una sola parola, un implorare e dannare rabbioso e disperato in cui si esplicita e sintetizza tutto il dolore di Medea, al di là del suo essere madre, moglie, strega, straniera, ma proprio del suo intimo essere donna. “Guardami!” con questo solo imperativo supplichevole, Medea non esita a spogliarsi, strappandosi di dosso ogni finzione, per gettare davanti agli occhi di tutti la nudità essenziale del suo soffrire, in un urlo catartico a cui seguirà una perfida quiete. Nel conflitto tra giustizie, nell’insolvibilità strutturale tipica della tragedia antica, Medea, come gli altri personaggi, è dilaniata da una profonda dicotomia, da quella crepa che la vita talvolta impone alle anime, dividendole in nette e frantumate metà. È un continuo oscillare tra convinzioni antitetiche nell’attesa di agire per tentare di risolvere un dolore, con la consapevolezza di non poterlo cancellare. A Medea sudano anche le ossa, febbricitante, prima che il suo cuore si ghiacci pur continuando a patire, mentre ogni parola, ogni nota musicale e ogni gesto restituiscono alla materia un’eterna, ancestrale fibrillazione che viaggiando attraverso la rappresentazione teatrale porta al di fuori di ogni temporalità per solcare l’universale, intimo, solito animo umano, in quel trasudare e necessitare essenzialità. Un gessato severo e tacchi rossi impazziscono; certe scene sono così intense che si possono guardare solo in controluce, come le eclissi, un controluce rosso come il sangue e il fuoco, attraverso quelle anticamere necessarie per scrutare la vita senza essere visti, che contornano la scena, come nel teatro antico si impediva alla vista, lasciando all’immaginazione dello spettatore, i picchi più cruenti che l’essere umano giunge a toccare, e nei quali si immerge. Una pellicola soffocante fa da coreografia sulla quale si stagliano ombre, visi, fantasmi. Medea inserisce con irreversibile violenza la sua azione nel concatenarsi di eventi che la travolge, ma è anche spettatrice di se stessa, delle conseguenze portate dal suo agire, come in una lucidissima trance, le ascolta narrare con attenzione, con stupore quasi, mentre si fuma una sigaretta. I suoi figli sono ormai marionette, e Giasone, che ne stringe i corpi tra le mani, disperato, esangue, chiude la scena in un cerchio perfetto; il suo urlo senza voce sintetizza di nuovo la tragedia, in un quadro densissimo, traboccante di tensione, in un grido un silenzio struggente, come chi d’improvviso avverte l’abbandono.