scritto e diretto da Tino Caspanello
con Cinzia Muscolino, Alessio Bonaffini, Tino Calabrò
produzione Teatro Pubblico Incanto
———-
La scena è scura, le quinte ed il fondale con il loro nero sembrano pronte ad ingoiare qualunque malcapitato o invece (dipende dai punti di vista) ad eruttare meraviglie come un cilindro il suo coniglio. Tutto è possibile in questo inizio.
Al centro del palcoscenico la ringhiera di un balcone ed appena il buio segnala l’inizio dello spettacolo, da una tenda rossa a frange di plastica escono due persone che si mostrano all’accendersi dei fari, già delineate nei loro personaggi simili ma contrastanti.
In tuta, anzi in salopette e maglietta il primo, mentre il secondo ha preferito una camicia; colori chiari, pastello ed iniziano subito a lavorare. In mano carta vetro per strofinare; il primo operaio, si differenzia immediatamente dal suo compagno, con il piglio deciso e la manualità rapida e sicura. Strofina e soffia, strofina e soffia in una alternanza rigida e consolidata pregna di significati ricordando il famoso ordine del maestro “Metti la cera, togli la cera” come prologo dell’insegnamento di disciplina delle arti marziali, mentre l’altro operaio guarda in avanti e si incanta, ipnotizzato da non si sa cosa.
I primi momenti sono scanditi dallo strofinio e dal soffio e dalla coinvolgente mimica del volto. Gli attori non hanno ancora parlato ed il pubblico già ride. Sono operai, imbianchini, mandati dal principale a ridipingere il balcone di nero. Il colore diventa pretesto per la prima riflessione che l’uno contesta all’altro.
Secondo operaio Ll’avem’a ffari niru, veru?
Primo operaio Così u vonnu.
Secondo operaio Si era u mei, u facia di nn’autru culuri.
Primo operaio Ma siccomi non è u toi, u fai niru e bbasta.
Secondo operaio Travagghiamu va’.
Primo operaio E ssì, va’.
(Il Secondo operaio torna al lavoro, ma dopo un po’ si ferma).
Secondo operaio Niru!
Primo operaio Ancora?
Secondo operaio Pari na iaggia.
Primo operaio Ma chi cc’ha’ stari tu?
Secondo operaio Iò non ci starissi mai.
Primo operaio E allura!
Battute secche, concise, precise che ineluttabilmente rimandano alla scarsità, alla sinteticità, all’essenzialità che caratterizzano esistenze grame dove l’orpello non è né gradito né tantomeno conosciuto. Continua così con lo scambio di parole necessarie e mai superflue il percorso drammaturgico che viene bruscamente sconvolto dall’irruzione in scena del terzo personaggio.
I due, (che non aspettavano Godot ma avrebbero anche potuto volendo), devono far fronte ad un imprevisto. Una donna entra nella casa non ancora abitata dalla porta rimasta aperta e cocciutamente vuole rimanere lì a guardarli lavorare, diventando nel contempo miniera inesauribile e provvidenziale con l’enorme borsa da cui magicamente estrae bicchieri, vino, acqua, caffè e pane, non necessariamente in questo ordine cronologico.
Da subito i due mostrano i segni di una solitudine atavica e non contemplata perché non capita e mai realizzata a livello di pensiero consapevole. Ma con l’arrivo della donna di giallo vestita come se fosse spuntato il sole fra le nuvole, arriva una ventata di aria fresca che porta una certa vivacità quasi di allegria come se fosse possibile anche la leggerezza nella vita di ciascuno di loro.
Tre solitudini fanno quasi una comitiva di amici e progettando di stare insieme il giorno successivo che è domenica riempiono la propria vita con un progetto e un appuntamento.
L’arrivo del terzo personaggio rappresenta l’incognita, il fattore sorpresa che nella vita sempre arriva prima o poi per quanto si possa tutto prevedere e programmare.
Quante vite trascorrono inermi nell’attesa che arrivi quel giorno che porta la novità?
Ma forse neanche si aspetta la novità, immersi come si è nella prevedibile organizzazione schematica regolata solo a provvedere alla soddisfazione di bisogni impellenti e materiali.
È gioco facile addormentare le coscienze, anzi evitare che si formino addirittura!
Chi nulla conosce, nulla pretende e razzola solo nel cortile assegnato. Ma sempre in agguato la sorpresa può arrivare a ridestare con stimoli e desideri sconosciuti anche la persona più prevedibilmente rinsecchita. Basta lasciare una porta aperta e vedere cosa accade.
Molto bravi i tre attori che hanno conquistato il pubblico. Mimica e gestualità precisa e pulita. Sintonia perfetta e intesa millimetrica hanno dilatato il piccolo e angusto spazio del balcone fino a allungare lo sguardo al di là della strada e della vallata in cui il paese era confinato all’inizio.
Pochi elementi come un cappello, un ventaglio, una sigaretta e un rossetto diventano metafore di vita e di scelte mentre la comunicazione assorbe anche le difficoltà solo iniziali del dialetto stretto.
È come una farsa, un mimodramma, un film muto! Le parole ci sono e sonoramente compongono la colonna musicale, ma potrebbero dire qualunque cosa e ciascuno nel pubblico può ascoltare un discorso diverso.
L’universalità spesso inizia da una piccola specifica particolarità.
Micro e macro, angusto e infinito, elaborazione di una sintesi che potrebbe ampliarsi in varie direzioni.
Mi è piaciuto ed è piaciuto anche al pubblico. Applausi convinti.