Quello di Orfeo ed Euridice è un mito che, indipendentemente dal contesto nel quale viene calato, ci restituisce qualcosa che ci riguarda da vicino. L’amore, la morte, il dolore e la gioia come condizioni mutevoli: una sorta di memento mori che ci invita a vivere. Partendo da questo, Gluck dipinge un affresco musicale complesso ed innovativo (la prima risale al 1762), tessendo note immortali e dando il via a quella che oggi viene ricordata come la “riforma del melodramma”.
La Scala, con questa prima rappresentazione (non era mai andato in scena al Piermarini), ripara quindi ad una mancanza importante, con un’allestimento della Royal Opera House di Londra, che si presenta come uno spazio metafisico in cui i protagonisti si muovono su due piani: uno terreno, che è anche “infernale” e uno etereo.
All’interno di questi piani il mito diventa senza tempo, armonizzando – pur nella modernità della scena – l’estetica musicale e quella materiale, restituendo un insieme davvero riuscito.
Subito, entrando nel teatro e guardando verso il palcoscenico, si nota che la buca è vuota. Alle 20 precise le luci si abbassano, lasciando solo qualche bagliore in platea dato dai display degli smartphone. Si sente il rumore del sipario che si apre, una flebile luce illumina una figura seduta sul palco e all’improvviso eccola, l’orchestra, che appare sul palco, all’interno di un’enorme piattaforma che si solleva. L’effetto è, oggettivamente, stupefacente.
Il maestro Michele Mariotti attacca l’ouverture e inizia la sua salita “al cielo”. Da questo momento veniamo rapiti completamente dalla bellezza della musica di Gluck, grazie soprattutto ad un’orchestrazione che è perfettamente equilibrata sotto tutti i punti di vista.
Dagli slanci lirici, fino ai momenti più languidi, cupi, Mariotti ci regala tre atti di puro piacere, accentuando tutti i colori senza perdersi mai in eccessi e rendendo ogni accento senza perdere mai il controllo. Un’esecuzione magnifica.
Le scene di Conor Murphy sono essenziali: due enormi piani metallici, sovrastati da pannelli anch’essi metallici. La regia di Hofesh Shechter (che firma anche le coreografie) e John Fulljames è allo stesso tempo filologica e innovativa.
Le parti coreagrafate, dove la compagnia di danza Hofesh Shechter ci regala movimenti pregni di significato, vengono inserite all’interno di questa dicotomia concettuale con una sintassi perfetta, che rende il tutto ancora più interessante e visivamente coinvolgente.
Che dire dell’Orphée Di Juan Diego Florez? Vicino alla perfezione. Se non fosse per qualche difficoltà nei registri più acuti, appena percettibile. Una voce suadente, una presenza scenica impeccabile, un’interpretazione memorabile.
Brava anche Christiane Karg, che ci ha regalato una Euridice delicata, soave, eppure intensa, grazie ad un timbro caldo e pulito, una tecnica impeccabile e una presenza scenica ineccepibile.
Pollice in alto anche per Fatma Said, che ha interpretato L’Amour completamente ricoperta d’oro.
Menzione speciale anche per il coro, diretto da Bruno Casoni, che davvero ha dato il meglio in questa occasione.
A fine recita applausi scroscianti e pubblico in visibilio, soprattutto per Florez (che ha preso anche due lunghi applausi a scena aperta, ampiamente meritati) e Mariotti.
La recensione si riferisce alla recita di martedì 6 marzo 2018.