Un profumo di donna che è il profumo della vita, annusata, carpita, vissuta senza ipocriti formalismi. È la visione di Fausto, che vedere non può con gli occhi, ma ha acuito l’olfatto e gli altri sensi con i quali capta ogni feromone femminile che volteggia nel raggio d’azione della sua orbita corporea.
Il carattere brusco e cinico, la prestanza fisica e la ferma determinazione a respingere ogni sfumatura di commiserazione ne delineano una figura fortemente caratterizzata che si guadagnerà il rispetto e l’ammirazione del suo assistente.
In licenza premio, il soldato Giovanni deve accompagnare da Torino a Napoli Fausto, capitano in congedo che ha perso la vista a causa di un’esplosione accidentale che gli ha offeso anche il braccio sinistro. Fieramente sprezzante, irascibile, scorbutico e niente affatto vinto dalla sua menomazione, il capitano è sarcastico con la giovane recluta che soprannomina “Ciccio” (anonimo appellativo utilizzato anche con i precedenti) facendosi beffe della fiduciosa tenerezza che lo lega alla sua fidanzata con la quale scambia frequenti telefonate: “Fatti guidare sempre dall’odore, amico mio”.
L’impudente disprezzo camuffa, in realtà, la capacità di guardare oltre gli schemi retorici delle borghesi consuetudini e la perspicacia di leggere nel profondo dell’essere umano.
All’iniziale disorientamento di Ciccio subentra la fascinazione per il personaggio, fino all’affetto discreto per la persona.
Il viaggio impone delle tappe. A Bologna il capitano sente prorompente il richiamo dei sensi attratto dalla scia sensuale di una ragazza della quale descrive minuziosamente atteggiamenti e abbigliamento all’esterrefatto soldato. A Roma incontra il cugino sacerdote che tenta di confortarlo della sua angoscia esistenziale.
Ciccio impara a bere whisky e ad aguzzare la vista per guardare oltre le apparenze, scrutando nell’intimo di un cuore refrattario alle attenzioni ma tormentato dalla solitudine. Una lezione di vita che lo renderà adulto.
La famiglia dell’amico Vincenzo (anch’egli non vedente) li attende a Napoli, con un festoso pranzo durante il quale la moglie Celeste esterna preoccupazione per l’umore del marito e la figlia rinnova inascoltate profferte d’amore a Fausto, incurante da anni dell’attrazione per lui della ragazza.
Il maldestro tentativo di mettere in atto l’accordo segreto di porre fine alle due tristi esistenze costringerà il capitano a mettere a fuoco i sentimenti di chi vuol prendersi cura della sua vita.
Forse, ancora una volta, omnia vincit amor.
L’adattamento teatrale del romanzo “Il buio e il miele” di Giovanni Arpino è di Pino Tierno.
Massimo Venturiello, che cura anche la regia, giganteggia vestendosi d’imperio del ruolo, del carattere e della perspicacia di un personaggio che tutto esprime con la modulazione vocale e l’altezzosità del portamento che fanno scudo alla vacuità dello sguardo. Mirabile e di forte impatto scenografico il tango ballato con sensuale trasporto tra i tavoli del bar.
Andrea Monno è garbatamente devoto nel ruolo di Ciccio, passando dall’ingenuità all’ammirazione. Irma Ciaramella è la loquace Celeste, Sara Scotto di Luzio è botticelliana negli ardori giovanili dell’amore, Franco Silvestri è l’amico napoletano, Camillo Grasso il cugino prete, Claudia Portale la ragazza bolognese.
La scarna scenografia mobile di due carrelli bianchi compone e scompone terrazze e verande di bar, punti di sosta lungo il percorso.
Le musiche sono di Germano Mazzocchetti, alcuni brani sono accompagnati dalla voce di Tosca.