Il Teatro alla Scala, tempio meneghino delle grandi occasioni artistiche, propone in cartellone, la soirée con un trittico d’eccezione, Mahler 10, Petite Mort e Boléro.
Come in una tavolozza di colori primari, blu, giallo, rosso, la triade, pennella sulle note di Mahler, Mozart e Ravél, quadri coreografici di mirabile bellezza, firmati da Aszure Barton, Jiri Kylian, Maurice Béjart, interpretati dalla étoile Roberto Bolle e dallo smalto dei primi ballerini scaligeri e Corpo di Ballo in toto.
I tre compositori, così diversi tra loro, si colorano in divenire, dalle tinte più fredde a quelle calde, suonando le corde emotive più profonde dello stato d’animo umano, quello stesso che ha accompagnato la vita spesso tortuosa del genio creativo di questi autori.
Il risultato è un file rouge che corre a cucire le tre grandi opere coreografiche in scena, quasi a voler raccontare una unica storia, senza alterare ogni singola creazione, viaggiando in crescendo fino al culmine della sua esplosione.
Mahler 10, della coreografa canadese Aszure Barton, restituisce un corpo cosciente ai ballerini, con la particolare cifra stilistica che la contraddistingue, di cui anche Michail Baryshnikov, si invaghisce, per la capacità di entrare sotto pelle, scavando per restituire il non detto sommerso delle intenzioni coperto dalla struttura tecnica della danza.
Un processo, under skin, che la coreografa nutre, in seno anche alla formazione del Movimento autentico, una pratica costituita dall’esperienza meditativa e creativa all’interno della relazione fra una persona che si muove e una che testimonia quel movimento, senza giudizi e pregiudizi. Il bisogno di essere visti e testimoniati, diventa esso stesso il tema da raccontare.
La scrittura coreografica si tesse sul rincorrere se stessi attorno al proprio asse, e rincorrere altri, con movimenti a spirale e concentrici, per entrare e uscire dalla propria comfort zone, cadendo e rialzando il proprio peso corporeo per lasciare una traccia, fino alla condivisione totale di tutti i danzatori interpreti, in un’atmosfera cerulea, neutra di tinte fredde: Virna Toppi, Christian Fagetti, Antonino Sutera, Stefania Ballone, Claudio Coviello, Antonella Albano, Federico Fresi, Chiara Fiandra.
Note
Il Movimento autentico affonda le radici nella danza intesa come strumento terapeutico, ed introdotto con la danza terapia in America e poi in Europa, intorno agli anni ’40, da M.Whitehouse, J.Adler e J.Chodorow, danzatrici, danza terapeute e psicoterapeute.
Petite Mort, coreografia di Jiri Kylian, secondo cammeo in scena, si compone di quella sintesi barocca minimalista propria dell’autore cecoslovacco, nell’affrontare il tema della partitura mozartiana, sottraendo abiti e crinoline ingombranti d’epoca ai ballerini, aggiungendo elementi di rischio, come il fioretto e abiti-manichini a rotelle da gestire con maestria sincronica, sulla velocità degli accenti musicali, al fine di evidenziare l’anima nuda dei personaggi, spogliata di fronzoli e merletti, testimonianza di un’altra umanità.
Lo studio dei limiti e le capacità di muoversi nello spazio affrontati da Kylian risultano lo stimolo per entrare in rel-azione con il suo particolare stile e tecnica, sempre alla ricerca di un nuovo tempo da raccontare.
Il gioco tra le parti regge egregiamente, anche per l’abilità con cui i ballerini scaligeri, ormai avvezzi ad interpretare ruoli di danza contemporanea, si calano con dovizia nella tecnica dell’autore, merito pro tempore, di Annamaria Prina, già Direttrice della Scuola di Ballo scaligera, per avere introdotto nel percorso didattico formativo accademico classico , lo studio degli stili di movimento contemporaneo più attuale.
Puntuali quindi i solisti e primi ballerini nell’insieme coreografico di Kylian, nel sapere accendere una fiammella gialla, per sottolineare l’umore di un’epoca settecentesca, godereccia, fatta di duelli, onore e morte: Stefania Ballone, Christian Fagetti, Virna Toppi, Antonio Sutera, Antonella Albano, Daniele Lucchetti, Paola Giovenzana, Andreas Lochmann, Giulia Lunardi, Massimo Garon, Agnese Di Clemente, Gioacchino Storace.
Il Boléro di Ravél, con la coreografia di Maurice Béjart, si tinge di rosso e chiude il trittico, con l’evento atteso dal trepidante pubblico, per tributare una standing ovation di 15 minuti, all’étoile tanto amata, Roberto Bolle.
Note
Il Boléro di Ravél, mancava dal cartellone ballettistico, da 15 anni. Interpretato fin dal suo esordio, dall’icona béjartiana Jorge Donn, il coreografo ha ceduto il testimone nelle mani di altre impareggiabili stelle della danza, come Maya Plisetskaya, Luciana Savignano, Patrick Dupond, Yasuyuki Shuto, la più recente Sylvie Guillem e prossimi, nelle date del 29 e 30 marzo, sul palcoscenico scaligero, anche i francesi, interpreti di Béjart: Elisabet Ros e Julien Favreau.
Una cronologìa di interpreti che porta a riflettere sul potere carismatico che avvolge e nutre la musica del compositore e del coreografo, frutto di un processo simbiotico quasi ancestrale. La coreografia di Béjart abbraccia l’intera umanità…di tutti…ma non per tutti, in grado di saperla interpretare nella sua essenza.
Concepita da Maurice Ravél nel 1928, la composizione per balletto gli venne commissionata dalla ballerina russa Ida Rubinsteijn, in scena per la prima volta all’Opéra National de Paris, con le coreografie di Bronislava Nijinska. In quegli anni furoreggiavano i balletti russi di Diaghilev, in tournée europea.
Brano dal carattere tipicamente spagnolo, risulta da subito molto innovativo e provocatorio, in cui, la storia originale, vuole una donna danzare sopra un tavolo, in un ballo rituale, attorno al quale stanno gli uomini. Il coreografo Aurel Millos ambientò in una taverna il Boléro, rendendolo rusticamente grezzo.
Da subito la lettura di Béjart, vuole uomo al centro di un grande tavolo rotondo, portando il tema narrativo, ad un concetto universale e molto più ampio della seduzione.
Roberto Bolle… “sognavo di interpretarlo fin da quando lo vidi ballare da Jorge Donn nel film di Lelouch, Bolero Les Uns et les Autres”.
Sicuramente, l’anima marsigliese di Béjart lo ha portato ad indagare nei meandri più bui dell’essere umano, come per metafora nell’antro delle nostre fragilità. Nella caverna/taverna di un porto di mare, nel quale gli impulsi primordiali si palesano evidenti senza false congetture.
Interpretare il Boléro di Ravél/Béjart, è un self evaluation, un’auto analisi, alla quale non puoi sottrarti, se non scoprendoti totalmente, per poi ritrovarti, in un gioco di seduzione allo specchio trasparente, senza alcun impulso trattenuto. Un processo quasi terapeutico e ipnotico, sul brano ostinato del tamburo e la ripetizione dei due temi principali che lo contraddistinguono. Orchestra insigne, diretta da David Coleman.
Una suggestione alla quale, anche Roberto Bolle, Principe d’eccellenza, non ha saputo resistere al richiamo ipnotico e viscerale della suadente musica in crescendo, del flauto, clarinetto, oboe d’amore, trombone e sax, verso l’incedere ripetitivo ed incalzante delle percussioni, fino all’apoteosi del contraltare dei ballerini ai piedi del tavolo sacrificale, con l’esercito della scuderia scaligera al completo: Christian Fagetti, Edoardo Caporaletto, Marco Agostino, Nicola Del Freo e il Corpo di Ballo diretto da Frédéric Olivieri. Chapeau!