La drammaturgia di Giuseppe Manfridi si innesta sulla parola. L’autore scardina contesti e situazioni di ordinaria normalità rendendoli paradigmatici di reazioni e comportamenti che rivelano profili psicologici ed emotivi quotidianamente riscontrabili nei rapporti familiari, amicali od occasionali. Ciò caratterizza l’universalità della sua scrittura, che stigmatizza perfino gli eccessi del profondo, come nelle tragedie greche. E la tragedia greca, riproposta in chiave moderna, evoca questo testo, il cui titolo Zozòs si può tradurre dal gergo parigino come “uccellini”, con l’equivalente significato traslato.
Attraverso la parola aulica e allusiva, umorale e pregnante, si passa dal tono di commedia pruriginosa al thriller sentimentale fino all’imprevedibile tragedia, evocando Edipo e Giocasta in un intreccio inestricabile di casualità e agnizione che, partendo dalla licenziosità di costumi contemporanea in cui tutto sembra scontato e destinato a una conclusione ridanciana, nella mutevole realtà sfocia nell’ineluttabilità del fato. La parola sovvertitrice insinua dubbi e scatena tensioni in cui si disvelano presentimenti, in un gioco di specchi deformanti.
Moderna e originale, scritta vent’anni fa e molto rappresentata all’estero, la pièce ha un impianto audace e uno sviluppo drammatico, sul filo di dialoghi umoristici e graffianti.
Una signora e un giovanotto appena conosciuto, si rifugiano nella camera di lui per un incontro ravvicinato. Al culmine della passione restano irrimediabilmente incastrati al punto da essere costretti a richiedere l’intervento del padre, esperto ginecologo. Colpita da improvvisa pudicizia, la donna pretende di coprire le imbarazzanti nudità con l’unico telo disponibile: un bianco paracadute che viene steso in tutta la sua ampiezza.
Un incastro fisico ed emotivo che si annoda sempre più intorno ai corpi e agli animi dei protagonisti, impossibilitati a sottrarsi ai disegni del destino.
La Bice di Manfridi si può collocare tra le protagoniste della tragedia antica, eroine di una perenne atemporalità. Siddhartha Prestinari esprime mirabilmente la potenza espressiva del testo che fa da detonatore alle contraddizioni umane, disegnando la sinusoide dei sentimenti della donna tra vergogna e indignazione, in un disfacimento che si stempera in musicali orazioni.
Paolo Roca Rey rende il giovane Tito sperduto e delicato in una situazione imbarazzante esteticamente e psicologicamente, che gli farà prendere coscienza di sé.
Claudio Boccaccini, che ha una lunga consuetudine con le opere di Manfridi di cui da anni cura la regia, contrappone allo svelamento drammatico la recitazione parodistica di Riccardo Bàrbera, il ginecologo Tobia, l’unico che ha libertà di movimento e di gestualità nel tentare di essere d’aiuto, senza riuscirci.
Nel finale, il regista sembra ispirarsi alla scenografica teatralità delle marmoree sculture di Bernini facendo slanciare i due corpi statici, avvolti dal luminoso candore, in una plastica fuga di braccia protese verso l’ignoto.
Il testo di Zozòs è pubblicato da La Mongolfiera Editrice.