Esilio della Piccola Compagnia Dammacco è uno spettacolo che unisce. Instaura un legame speciale con il proprio pubblico. Convince “oltre ogni ragionevole dubbio” gli addetti ai lavori: ne sono testimonianza i premi e le segnalazioni ricevute nella sua ancor giovane vita da questo lavoro, unitamente alle repliche che si susseguono a grande richiesta.
Una delle conseguenze di tale condizione è che su Esilio resti poco da raccontare. Eppure se la vitalità emozionale dello spettacolo si mantiene intatta nella reazione dei suoi spettatori – come avvenuto di recente nel corso del festival “La Cultura dei Legami” a Pescara – vuol dire che permane una ricchezza di elementi da osservare e descrivere con attenzione. Vuol dire che nella fenomenologia dello spettacolo vivono motivi capaci di carpire umori diffusi nel tessuto sociale, profondi ma altrettanto concreti e tangibili. Vuol dire che comprendere i meccanismi teatrali su cui è costruita la struttura di Esilio significa capire alcuni aspetti del nostro oggi.
Con Esilio Mariano Dammacco inquadra il dramma del lavoro precario ed ancor più quello dei lavoratori, polverizzati nella loro identità a causa delle ripercussioni umane imposta dalla loro condizione. La figura che viene tratteggiata per identificare questo dramma è quella di un uomo di mezza età, perfettamente realizzato all’iterno di una esistenza piccolo-borghese, priva di pretese e felicemente ripetitiva. Questo “giardino di semplicità” verrà annullato in seguito al suo licenziamento, dovuto ad inconstestabili motivi di razionalizzazione dei costi da parte dell’azienda.
Il primo segno importante dello spettacolo sta nella scelta da parte di Dammacco di realizzare qualcosa di diametralmente diverso dal dramma documentale o dal lavoro di denuncia. Dramma e vicenda vengono disegnate con il tocco del pastello, per così dire: il protagonista non ha delle fattezze realistiche, bensì delle pose naiv che richiamano tanto Chaplin (di cui però manca volutamente la velocità febbrile) quanto la morbidezza del cartone animato. In questo senso, l’interpretazione di Serena Balivo (premiata con l’Ubu 2017 per la categoria “Nuovo attore o attrice under 35”) in un ruolo maschile va ben oltre le logiche della recitazione en travesti ed è incolmabilmente lontana da ogni dinamica provocatoria di cross-dressing. Serve per contro come perno di un lavoro che ricerca la deformazione di segno come strumento di rappresentazione. L’omino che viene tratteggiato in scena non si muove secondo gesti e movimenti riferibili ad una maschilità stereotipica e posticcia da mediocre repertorio attorico, bensì fluttua quasi con la leggerezza di una marionetta. Il tutto è inserito in un quadro complessivo che va a toccare anche la stilizzazione del timbro vocale, della fonazione, della prosodia.
Ciò serve a nutrire la principale scelta registica: veicolare il dramma della perdita del lavoro rifuggendo da ogni lamento e da ogni sentimento di rabbia. Il che vuol dire elaborarne la ferita allontanandola dalla sua contestualizzazione più facile ed immediata, quindi dalla sua semplificazione. Al contrario, la grazia favolistica che fa da cornice alla viocenda, esalta per contrasto il portato drammatico del tema rappresentato. O meglio, ne potenzia la ricezione partecipata nella percezione dello spettatore.
Una volta costruito questo canale di intimità con la sensibilità del pubblico, lo spettacolo può procedere nell’emersione di panorami interiori. Ecco che subentra un secondo personaggio, una figura animica (interpretata da Dammacco) collocata fuori dal tempo e dallo spazio, che ricorda per certi versi gli angeli di Wim Wenders per via di questa distanza “scintillante” ed allo stesso tempo di questa prossimità ideale con la condizione degli uomini.
Come sempre, nella creazione di un microcoscmo, c’è un momento di genesi, decisivo per quanto infinitesimale. Prima che lo spettacolo inizi, mentre si attende ancora che la platea si riempia, si può udire un fruscio, il suono di uno sciabordio leggero, che si interromperà solo con l’inizio dello spettacolo. È un elemento che passa inosservato, il cui ritmo costante quasi culla l’udito invitandolo ad assufersi, a distrarsi, a concentrarsi su linguaggi più perentori. Eppure in questo segno minimale si conserva una traccia importante che racchiude il senso ultimo dello spettacolo: non sappiamo se quel suono acqueo sia una dolce invito ad un sentimento serenante, oppure non sia al contrario il simbolo di una deriva irrimediabile.
È una sensazione che si mantiene anche alla fine dello spettacolo, che non a caso si chiude con una domanda, un interrogativo aperto. Perché se Esilio – come già detto – non è uno spettacolo di denuncia, non è nemmeno uno spettacolo di speranza. È per contro uno spettacolo catartico, in cui si dà voce e parola alla fragilità, al dolore come esperienza con cui l’essere umano familiarizza prestissimo ma che la cultura sociale rimuove illusoriamente e l’esistenza riscopre tardivamente, drammaticamente. C’è però l’arte, la dimensione dell'”inutile”, o di ciò che non è negoziabile.
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CREDITS:
“ESILIO”
con Serena Balivo e Mariano Dammacco
ideazione, drammaturgia e regia Mariano Dammacco
con la collaborazione di Serena Balivo
luci Marco Oliani
cura dell’allestimento Stella Monesi
ufficio stampa Raffaella Ilari
foto di scena Pino Montisci
produzione Piccola Compagnia Dammacco
con il sostegno di Campsirago Residenza
con la collaborazione di L’arboreto Teatro Dimora di Mondaino
e di Associazione CREA/Teatro Temple, Associazione L’Attoscuro
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Spettacolo vincitore Last seen 2016 (miglior spettacolo dell’anno su KLP)
Spettacolo vincitore Primo Premio al Festiva Teatrale di Resistenza – Premio Cervi Teatro per la Memoria 2017
Spettacolo finalista al Premio Rete Critica 2016
Spettacolo finalista al Premio Cassino OFF 2017
Spettacolo Selezione In Box 2017
Serena Balivo finalista al Premio Ubu 2016