“Uno sterrato. D’un lato, le linee di gesso granuloso e malamente tracciate di un corner fanno immaginare, nello spazio contiguo a quello visibile, un malconcio rettangolo di gioco. Il classico campetto di periferia. Luci fredde e radenti di un mattino autunnale. Non si stenterebbe a vedere la condensa del più leggero soffio d’alito…” è l’incipit del testo di Giuseppe Manfridi.
Il campo di calcio sta dietro le quinte, da cui entrano ed escono i ragazzi per contestare, commentare, amoreggiare con le ragazze, spettatrici sui gradini della scarpata.
L’autore, cultore della parola dotta, drammaturgo raffinato e acuto osservatore della realtà, costruisce per questo testo una lingua romanesca che attinge a diversi strati sociali, ponendosi come espressione generazionale trasversale di inquietudini e aspettative.
Scritta nel 1992, la commedia rivela la sua età solo nei valori monetari espressi in lire e pochi altri riferimenti legati all’attualità, mantenendo la freschezza e l’immediatezza di uno spaccato di periferia crogiuolo di idilli, vanità, conflitti, vanterie, emarginazioni, corteggiamenti, multiculturalità.
Arrivano alla spicciolata i maschi e una ragazza brusca e determinata, La Ruvida, che dovrebbero giocare. Abbigliamento disomogeneo e comunicazione verbale colorita, sincopata e a tratti figurata, misurano sul fangoso campetto la capacità di coagulare le irruenze adolescenziali. Le ragazze, più strutturate e definite nel carattere e nel look, sono sempre in scena, spettatrici e sostenitrici dei fidanzatini.
Nel secondo atto va in scena un’analoga situazione, un anno prima. Tra i maschi, c’è un ragazzo in più. Altri amori, altre aspettative. Sugli spalti (dietro le quinte) c’è un ispettore per osservare Furio, che ritarda e arriverà con la gamba ferita per un incidente in motorino.
Niente va come dovrebbe, si incrinano i rapporti di gioco e di cuore. Qualcuno spera in un futuro importante.
Un anno dopo uno di loro non c’era più, suonava un’altra musica e nascevano nuovi amori.
Un lungo flashback propedeutico a ciò che si è visto prima, una pellicola che si srotola all’indietro e fa capire quanto di ciò che sembrava codificato e permanente fosse invece l’istantanea di un processo di giovinezza che incontra anche il dolore, il lutto e la disillusione mentre rincorre la felicità e la realizzazione senza incontrarle del tutto, come loro stessi non si incontrano tutti insieme in campo.
Malinconia e tracotanza, fragilità e spocchia.
Il destino con le sue trame imprevedibili e il linguaggio con i suoi tipici stilemi sintattico-gergali sono i protagonisti assoluti di una partita continuamente interrotta, sincopata da ritardi e infortuni, elemento di aggregazione di un gruppo di ragazzi che sperimenta la difficoltà del crescere.
Rappresentazione corale di un contesto sociale, generazionale e linguistico, mosaico di tipi umani che il regista Francesco Bellomo evidenzia caratterizzandoli con l’abbigliamento, la postura e la mimica che assecondano la spontaneità della recitazione di un cast in formidabile sintonia, da Carmine Buschini (il protagonista di Braccialetti Rossi) a Sharon Alessandri, Damiano Angelucci, Sara Baccarini, Chiara Buonvicino, Mariavittoria Cozzella, Noemi Esposito (la calciatrice), Daniele Gatti, Carmine Giangregorio, Teo Guarini, Federico Inganni, Vanessa Innocenti, Daniele Locci, Martina Maiucchi, Nicolò Mililli, Elio Musacchio, Lorenzo Parrotto, Chiara Tron, Giulia Zadra.
Il testo, pubblicato da La Mongolfiera Editrice, è in vendita presso il botteghino.