Da Goldoni a Strehler il Servitore di due padroni diventa Arlecchino, maschera della Commedia dell’Arte guizzante e scoppiettante come una gragnola di mortaretti.
Commedia italiana più rappresentata al mondo con la messa in scena del 1947 di Giorgio Strehler che la definì “memoria vivente”, e la fa diventare palestra per gli attori della Scuola del Piccolo che dovevano, tutti, cimentarsi in questo grande affresco borghese goldoniano.
La trama, scritta nel 1745 in forma di canovaccio per Antonio Sacco che recitava improvvisando, fu successivamente fissata in copione dall’autore a seguito della sua riforma teatrale, mantenendo il carattere frizzante di tutti i personaggi e l’allegro scoppiettio linguistico e mimico che dà all’insieme un’impronta di continua improvvisazione. L’impostazione metateatrale amplifica il contesto gioioso, come nell’accensione delle candele all’inizio e nello spegnimento alla fine di ciascuno dei tre atti, in cui ogni lumino viene apostrofato con nomignoli vezzosi.
Da quella sera di luglio 1947 in cui Arlecchino debutta sul palcoscenico del Piccolo Teatro di Milano, la rivisitazione del maestro milanese mantiene la sua energia vitale e la sua poesia, uguale a se stessa eppure sempre fresca e attuale: bizze, lazzi, facezie, scambi di persona, segreti e promesse separano e ricongiungono come una fluttuante marea.
Arlecchino, sciocco e astuto al contempo come lo definisce il suo autore, serve due padroni per ottenere doppia paga e doppi pasti. Con semplicistica dabbenaggine si barcamena generando scompiglio e perplessità, imperscrutabile dietro la sua maschera di cuoio, agile come un folletto e acrobatico come un saltimbanco, comunicando con la prossemica del corpo oltre che con le parole.
Definita dallo stesso Goldoni commedia giocosa, inizialmente recitata a soggetto secondo l’estro improvviso degli interpreti, è stata massimamente apprezzata dal pubblico tedesco per l’intrigo inverosimile, la naturalezza recitativa e le intemperanze dei personaggi che ne facevano l’emblema della Commedia dell’Arte.
Riscritta nel 1753 per fornire alla trama una direzione di condotta ragionevole, con l’annotazione che chi volesse affrontare in seguito la parte di Truffaldino si astenesse da parole sconce e lazzi sporchi apprezzati dalla plebe ma offensivi per le persone gentili, il testo viene ripreso da Strehler con Ferruccio Soleri che ha caratterizzato tutta la sua carriera nel ruolo del servitore che intreccia con candore le vite degli altri, buffi personaggi di una variegata umanità: il ricco mercante Pantalone, il locandiere Brighella, il dottor Lombardi, Federigo Rasponi morto o forse no, il fuggiasco Florindo Aretusi, Beatrice Rasponi in incognito, i giovani innamorati Clarice e Silvio. Solo per amore della vispa Smeraldina Truffaldino placherà le sue smanie: “Ho fatto una gran fadiga, ho fatto anca dei mancamenti, ma spero che, per rason della stravaganza, tutti si siori me perdonerà”.
In questa messa in scena di Ferruccio Soleri per la regia di Giorgio Strehler, Enrico Bonavera “allievo di bottega” di Soleri è il funambolesco Arlecchino che sguscia e saltella intorno agli altri interpreti Giorgio Bongiovanni, Francesco Cardella, Davide Gasparro, Alessandra Gigli, Stefano Guizzi, Pia Lanciotti, Sergio Leone, Lucia Marinsalta, Fabrizio Martorelli, Tommaso Minniti, Stefano Onofri, Annamaria Rossano che indossano i costumi ispirati alla Venezia dell’epoca di Franca Squarciapino. Ai lati della scena essenziale ed evocativa con tendoni scorrevoli dipinti di Ezio Frigerio i musicisti Enrico Basilico, Gianni Bobbio, Leonardo Cipriani, Matteo Fagiani e Celio Regoli suonano le musiche di Fiorenzo Carpi. Le maschere sono di Amleto e Donato Sartori.