Ce lo avevano fatto conoscere loro Jean-Luc Lagarce, il brillante, geniale, graffiante autore francese scomparso prematuramente nel 1995. Loro sono naturalmente gli AttoDue di Sesto Fiorentino, qui presenti nuovamente in sodalizio con la compagnia Murmuris, per un allestimento speciale che richiede una formazione quanto meno peculiare. La presenza scenica di Simona Arrighi questa volta evapora, nel significato più letterale del termine: scompare “dietro le quinte” per assolvere al compito di una regia che ricade in scena come pioggia diffusa impercettibile. Ma è il diaframma tra dentro e fuori scena che si fa sottile fino al limite del disfacimento in “Giusto la fine del mondo”. Ecco che allora il titolo dello spettacolo stesso viene a mostrare insospettate connotazioni metateatrali: la fine del mondo preannunciata è quella delle cose umane che il teatro verrà a rivelare, o forse è la fine della finzione teatrale, che rinuncia a sé stessa e cede alla vita?
È questa sospensione indefinita – forse reciproca – l’oggetto effettivo della rappresentazione. La messinscena congegnata da Simona Arrighi e Laura Croce intende azzerare la distanza fisica tra pubblico ed attori, ma non siamo ad una rieditazione di esperimenti sessantottini né lo spettacolo intende stupire con effetti collaterali. La scena – collocata fuori dal palcoscenico – ritrae senza manierismi e senza la materialità posticcia dell’oggettistica teatrale un interno borghese, fotografato nel suo cerimoniale più tipico: il pranzo della domenica. Gli spettatori siedono lungo il perimetro di questo medesimo ambiente, come convitati di un evento privato, ma non c’è nessuna ricerca di voyerismo, neanche come mera atmosfera. La prossimità spaziale assolve ad un risultato più concreto che concettuale: avvicina un testo dalla ricezione più difficile di quanto intenda mostrare. Come un microfono consente all’attore di sussurrare e di farsi sentire al contempo da chi siede sulle poltrone dell’ultima fila, come una telecamera permette di cogliere nel primo piano le espressioni micromimiche (sottraendo l’attore ad una recitazione sproporzionata), così questa distanza ravvicinata connette con la naturalità di uno spettacolo inadatto alla fonazione stentorea ed alle posture di una recitazione turgida.
La scena non ha un lato prediletto alla visione. Non possiede una quarta parete perché non ne possiede una prima, una seconda o una terza. L’azione degli attori si mostra di spalle, di fronte o di taglio a seconda dei momenti ed a seconda del singolo spettatore, ma segue una fluidità del tutto aliena da una generosa o finanche oliata improvvisazione. Gli occhi di ciascuno di noi funzionano da macchina da presa su di una recitazione – individuale e corale – che assume la consistenza di un piano-sequenza continuativo e moltiplicato (non a caso il testo ha visto in Francia ben due adattamenti cinematografici).
I personaggi si muovono ad un metro da noi come in una “scena di strada”, ma con una discriminante semplice quanto decisiva: la situazione scenica è quella di un interno, anzi di una interiorità, ovvero di una dimensione che è fisica quanto “animica”. La densità dei dialoghi e dei silenzi che assimiliamo è quella che si sprigiona attorno al desco di una piccola famiglia (sono cinque in tutto i commensali): la parola non deve assolvere al compito di informare. Non c’è bisogno di presentazioni: ci si conosce già in famiglia. Non c’è bisogno di nascondere i propri umori in famiglia. Anche i gesti si aprono ad un repertorio più libero: sedersi, alzarsi in piedi o voltarsi non sono più vincolati ai significati previsti dal codice sociale. Si può persino sbadigliare in famiglia, crogiolarsi a turno nella constatazione della propria fisiologica stanchezza affidandola al porto sicuro della comprensione di chi ci ascolta.
Non è questo ciò che avviene in “Giusto la fine del Mondo”, non nello specifico: la trama è anzi innervata dal ritorno oscuro di uno dei fratelli, dopo anni di muta assenza, mentre il nucleo famigliare è mutato, perdendo la figura del padre ed inglobando quella esterna di una cognata. Ma è esattamente questa la dimensione esclusiva prescelta da Lagarce con istinto eminentemente drammaturgico, prima di ogni elucubrazione sui richiami biografici di una pièce che sembra effettivamente cucita addosso al profilo del suo autore, ma che altrettanto bene riesce a parlare a ciascuno di noi. Di ciascuno di noi.
Eppure, perché ciò accada, perché questa immediatezza si realizzi, la messinscena deve saper concepire un progetto connaturato con la cifra della comunicazione su cui il testo si regge, specialmente per un testo come questo, costruito intenzionalmente sulla inconsistenza della parola reale (non già di quella artistica).
Lagarce sa scrivere bene, è un abilissimo forgiatore di paesaggi costruiti interamente nella dimensione della parola ed ogni colorazione espressiva da lui mostrata risente di una scelta assolutamente oculata e precisa. Ecco perché il lessico famigliare di “Giusto la fine del mondo” non rappresenta una mera musicalità, bensì è uno strumento teatrale, del tutto definito, il materiale costitutivo di una dimensione scenica, artatamente dissimulato nelle forme apparenti di un semilavorato. Ecco perché non è solo vincente, ma assolutamente risolutiva la messinscena calibrata dopo lunga ricerca da AttoDue, con l’apporto sostanziale di Murmuris.
Dopo tutto, ce lo avevano fatto conoscere loro Jean-Luc Lagarce. Sono loro a mostrarci oggi un Lagarce diverso, tutto ancora da esplorare, di certo impossibile da catalogare, proprio come il cosmo che si agita dietro il volto che ci guarda.
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GIUSTO LA FINE DEL MONDO
di Jean Luc Lagarce
traduzione Franco Quadri
drammaturgia e regia Simona Arrighi, Laura Croce
cura Silvano Panichi
con Luisa Bosi, Laura Croce, Sandra Garuglieri, Roberto Gioffrè, Riccardo Naldini
allestimento spazio scenico Francesco Migliorini
assistente Angelo Castaldo
organizzazione Elisa Bonini, Davide Grassi
produzione Atto Due / Murmuris