Enrico Taddei, classe 1985, architetto, fiorentino di nascita e aretino di adozione, è un poeta e un letterato che crede nella cultura come canto umano di condivisione. La sua è una vita dedicata alla bellezza, alla sua creazione e alla sua diffusione. Lo scrivere e l’arte sono per lui un luogo sociale, dove far incontrare e convivere idee, parole, dialetti e colori. Numerose le pubblicazioni di opere in prosa e poesia, in lingua italiana e dialetto: Gli amori dell’altopiano, Viottole fiorentine, Delle favole da durare, Caminàde có ón veneziàn, per citarne solo alcuni. Numerosi anche i riconoscimenti: premio Franz Kafka Italia ® – IV Edizione 2014, XIII Premio Internazionale dell’Archivio Diaristico “La Lanterna Bianca”, XV Premio Internazionale di Poesia, “La Leonessa. Città di Brescia” e il I Concorso Nazionale “Echi di poesia dialettale”, anche se si potrebbe proseguire nell’elenco. Tutto questo però non è solo il marchio illustre di un freddo intellettuale, bensì tutt’altro, l’animo di una persona, sensibile quanto colta e votata alla costruzione di umanità e socialità attraverso la cultura. Dietro tutto questo c’è una missione che diventa passione e viceversa. Da questi talenti e da questa passione non poteva non nascere una realtà editoriale vivace e in continua crescita come “LuOGOS”, rivista di arti varie, di cui è stato ed è tuttora ideatore e direttore. Luogo d’incontro di sensibilità e talenti provenienti da mondi e arti diverse. Ultimo lavoro la raccolta di poesie Canti Umani (Edizioni Helicon). Ci sarebbe da dire molto altro, del suo amore per la cantante Mia Martini, per il territorio in cui vive, ma a questo punto non resta che scoprirlo direttamente parlando con il poeta, ma soprattutto l’uomo.
Enrico, dall’architettura di edifici all’architettura di parole. È stato un volo Pindarico o una naturale evoluzione?
Non è stato un volo Pindarico. Sono semplicemente stato catturato da entrambe le arti, poesia e architettura, fin dall’adolescenza e le ho coltivate entrambe, studiando e confrontandomi con altre persone, per molto tempo. Ultimamente, sospesa parzialmente l’architettura di edifici, mi sono dedicato all’architettura delle parole attraverso la pubblicazione di libri miei e quella di altri autori. Del resto la scrittura e l’architettura sono già state fortemente in contatto da J. L. Borges attraverso immagini simboliche quali il labirinto e il deserto. Per quanto mi riguarda, progettare una buona architettura equivale a progettare un buon libro. Entrambe i risultati possono contenere in sé, allorquando un fruitore vi ci si addentra, un’infinità di concetti espressi o sottesi.
Italiano e dialetti nel tuo scrivere. Come mai? Ci vuoi parlare di questo?
Il primo libro di poesie (Viottole fiorentine) ad essere pubblicato è proprio nella lingua della gente di Firenze e del suo “contado”. E dico appunto lingua invece che dire dialetto o vernacolo per il semplice fatto che se qualcuno si esprime, sia nel parlato quotidiano e sia in esempi di scrittura del genere che continuano ad essere editati, vuol dire che ancora si può parlare di lingua viva. Lo stesso vale per la pubblicazione in veneziano (Caminàde có ón veneziàn) dove, ovviamente, lo studio per imparare quest’altra lingua è stato più difficile, non essendo nativo di Venezia, ma molto utile ad ampliare la conoscenza storica e popolare. Quello di “andare” da Firenze a Venezia è avvenuto per caso ma per l’appunto, prendendone coscienza dopo, mi ha permesso di esprimermi nelle lingue delle due “capitali” culturali dell’Italia. Facendo ciò certamente si preserva e si rinnova l’amore per le radici culturali ma non faccio distinzione con la lingua italiana, nel senso che metto sullo stesso piano la scrittura nell’italiano di oggi così come nelle lingue di vari luoghi.
Il tuo ultimo lavoro è una raccolta di poesie intitolata “Canti Umani”. Un richiamo all’importanza di essere umani? Una speranza o cos’altro? Ce ne vuoi parlare?
Tra le pagine di questo ultimo lavoro, oltre ad altri temi trattati nelle poesie come l’amore (o l’assenza di esso) e la vita, ricorre più volte questo richiamo all’importanza di essere se stessi e di essere umani. Umani nel senso di valore, tra l’altro già espresso nell’humanitas di latina memoria, per arricchire la nobiltà dello spirito e per essere autocoscienti nel coltivare, quotidianamente, quel sentire dell’anima che fa agire le persone per il bene ed il bello. Più che una speranza questa è una fede la quale, qualora fosse condivisa da più gente, potrebbe sicuramente attenuare le violenze e le degenerazioni nella società odierna. Proprio per questo, sulla copertina del libro, ho fortemente voluto un dipinto di Valter Malandrini rappresentante il filosofo greco Diogene il quale potrebbe essere un possibile alter ego, seppur in un’accezione meno ironica e cinica, dell’Io narrante di questa pubblicazione. Quando Diogene esce di casa in pieno giorno con una lanterna in mano, e alla domanda su cosa stia facendo risponde: «cerco l’uomo!» era la scena adatta per inquadrare fin da subito la raccolta di poesie. C’è da dire però che, oltre al ritrovo della genuina e autentica natura dell’uomo, come il filosofo ci ricorda, in “Canti Umani” si mettono in luce quegli esseri che, in continuità, tendono a essere se stessi, che vivono secondo la loro più autentica umanità, che, al di là di tutte le esteriorità, le convenzioni imposte dalla società o al di là del capriccio della sorte e della fortuna, ritrovano la propria essenza di esseri umani. Oppure, viceversa, si criticano gli esseri che fanno l’opposto.
C’è un libro a cui sei particolarmente legato? E perché?
Sì. Il primo libro che lessi di Pier Paolo Pasolini (non avevo ancora compiuto sedici anni). Non ricordo precisamente il titolo ma questo non è importante perché qualunque cosa avessi letto di lui avrebbe dato una svolta alla mia vita. Come in effetti è stato. Quel particolare sentire, così vero e sanguigno, mi permise di vedere già da allora la vita da un’ottica fatta di meno apparenza e di più essere.
Diffondere la cultura altrui o creare la propria può essere vissuto come un dilemma a volte. Da poeta e scrittore, ma anche ideatore e direttore di una rivista come Luogos ti chiedo come vivi questa cosa?
Assolutamente non è mai stato vissuto come un dilemma e non lo sarà mai. Sono due fuochi che si alimentano a vicenda in me. Attraverso la rivista, o comunque diffondendo la cultura altrui, mi arricchisco innanzitutto personalmente ma soprattutto ne beneficia ciò che poi vado a scrivere da poeta e da scrittore. Sento molto, sia come impegno artistico che civile, il conoscere e lo scoprire altre persone di qualsiasi età che come me scrivono. Per questo la rivista Luogos e l’organizzazione di eventi artistici, tra i quali i reading collettivi di poesia, strumenti entrambi utili, oltre al fare conoscere talenti nuovi, danno vita, attraverso la reciproca condivisione del sentire poetico di vari autori, ad un vero proprio laboratorio sociale di crescita individuale.
Sei nato a Figline Valdarno e vivi a Castelfranco di Sopra in provincia di Arezzo. Il Valdarno terra di confini si potrebbe dire. Che rapporto hai con il territorio in cui vivi e con il territorio in cui sei nato?
Nella mia vita mi sono molte volte sorpreso di “stanziare” o di “ritrovarmi” sempre sopra a dei confini. Un altro, per esempio, è che abito lungo la Via dei Setteponti ovvero lungo la Ex Cassia Vetus, nel tratto da Arezzo a Fiesole, che è una strada che geologicamente demarca l’incontro tra la roccia (macigno arenaria) della montagna del Pratomagno e tra la sabbia (con argilla) sedimentata della valle percorsa dal fiume Arno. Anche da questa semplice constatazione ho ben presto iniziato a dare valore e senso ai confini perché sono sempre l’incontro di due entità diverse, a volte anche non diverse, che se ben utilizzate possono arricchire invece che marginalizzare.
Parliamo adesso di Mia Martini, una cantante che ha fatto la storia della musica italiana e che tragicamente ha vissuto ciò che non dovrebbe mai essere il mondo della cultura. Cosa ha rappresentato e rappresenta per te? Una musa? Un’artista?
La voce di Mia Martini mi ha accompagnato, e continua ad accompagnarmi, fin dalla mia adolescenza quando vi è entrata di colpo al primo ascolto. Un colpo di fulmine su tutti i fronti: per l’immediatezza nel trasmettere emozioni, per essere stata una grande donna, per l’arte che proponeva e per altro ancora. Devo dire che quando ho scritto e pubblicato con la BastogiLibri il saggio sul valore poetico dei testi delle canzoni di Mia Martini stavo attraversando una fase della mia vita molto dolorosa. Scrivere il libro in quel momento mi ha permesso di stare meglio, Mia Martini con le sue canzoni mi faceva compagnia. Lei c’era.
Parlando della poesia ricordi un verso a memoria, anche tuo? Come mai proprio questo verso?
Il primo che mi viene in mente è un verso mio e, anche se è ancora inedito, lo ricordo spesso perché è un mantra: «per carattere la poesia vola». Mi riferisco al forte valore della poesia orale, per esempio quella dell’Iliade e dell’Odissea dove appunto Omero ci ricorda: «ἔπεα πτερόεντα προσηύδα» (diceva parole alate), al quale si ricollega un verso di Mario Luzi: «Vola alta, parola, cresci in profondità». Versi di questo tipo ricorrono nella mia memoria perché credo fortemente nel riscontro da parte di un pubblico che si può avere grazie alla lettura ad alta voce, collettiva oppure no, di poesie.
Chi sono altri tuoi riferimenti letterari?
I miei riferimenti letterari sono molteplici e di diversa natura. Elencarli tutti sarebbe impossibile in questa intervista. Accennare a quelli principali mi sembra, lo stesso, impossibile e, in più, inappropriato. Vorrei semplicemente citare il nome di alcuni poeti e scrittori del Novecento che, senza andare a scorrere la libreria, mi vengono in mente perché sicuramente hanno influito molto sulla mia formazione. E cioè Brecht, Merini, il già citato Pasolini, Montale e Ungaretti, Ginsberg e Kerouac.
Qual è il tuo rapporto con il teatro?
Ho appena citato Brecht per l’appunto e poco prima l’importanza della poesia orale. Portare in teatro la poesia, ma non solo, come lo stesso Brecht ha fatto, ritengo che sia un ritorno alle origini di estrema importanza. Come già detto l’Iliade e l’Odissea venivano rappresentate in pubblico con accompagnamenti musicali. Un ritorno alle origini di estrema importanza perché potrebbe avvicinare di nuovo ad un più vasto pubblico la poesia in senso lato e gli stessi libri di poesia, troppo spesso relegati in scaffali quasi nascosti delle librerie. Per completare la risposta, ho iniziato ad andare a teatro grazie alla professoressa di inglese del liceo ed era proprio uno spettacolo di Brecht. Non ho ancora fatto corsi di teatro ma quando posso e so che l’opera vale la pena vado a sedermi in platea ad incantarmi come la prima volta.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Beh… come appena detto portare in teatro la poesia, ma non solo, è un’aspirazione anche personale. Non ancora progetto però. I progetti invece, già all’ordine del giorno, sono continuare a scrivere e a far scrivere altri autori, leggere e far leggere altri autori in pubblico, pubblicare e far pubblicare, presentare libri miei e quelli di altri.
Enrico Taddei è un poeta e un letterato che crede nella cultura come canto umano di condivisione.