Il palcoscenico del teatro greco di Siracusa come laboratorio in cui rimodellare il linguaggio dei classici nella forma espressiva delle tendenze contemporanee connotate da profili registici di forte personalità, in questo 54° ciclo di rappresentazioni classiche (direzione artistica di Roberto Andò) ospita una serie di produzioni che danno vita al Festival del teatro antico. La riflessione poetica su personaggi classici proiettati oltre i confini del tempo riguarda la visione del potere tra eroismo e tirannide, follia e vendetta, destino e solidarietà.
“Pensare in grande e raggiungere nuovi orizzonti puntando a divenire un’eccellenza riconosciuta a livello italiano ed europeo” è l’ambizione della Fondazione Inda (Istituto Nazionale del Dramma Antico) che sarà presente dopo 14 anni al Festival di Atene.
Per Emma Dante, regista dal personalissimo stigma scenico in cui il corpo dell’attore veicola il messaggio testuale, il dramma di Eracle è congeniale alla sua creatività dirompente.
La regista sovverte l’assunto che il potere sia prerogativa maschile, invertendo i canoni del teatro antico che metteva in scena attori maschi che indossavano maschere, ed assegna ad attrici i ruoli maschili tragici ed eroici, in una sorta di scandagliamento archetipico della dualità maschile-femminile che espone la potenza fisica virile alla fragilità psichica femminile.
Questo singolare processo di indagine attraversa epoche e stili, mutuando suggestioni dalla pittura fiamminga all’Opera dei pupi, dai compianti funebri alla tradizione del “cuntu” siciliano.
La scenografia di Carmine Maringola con una monumentale facciata marmorea costellata di fotografie di defunti davanti alla quale si protendono grandi vasche piene d’acqua per le abluzioni funerarie, simili a marmorei sepolcri sormontati da croci di legno girevoli come pale di mulini tra cui si aggirano i vecchi e calvi coreuti (tutti uomini), preannuncia un’atmosfera di morte.
Numerosi i simboli della modernità: la sedia a rotelle del vecchio padre Anfitrione cui Serena Barone conferisce pathos interpretativo dall’accentuata cadenza palermitana, le rose rosse offerte da Eracle alla moglie al suo ritorno a Tebe reduce dall’ultima fatica, accompagnato dal messo carico di valigie.
A Tebe il crudele Lico, assassinato il re Creonte, minaccia di morte padre moglie e figli di Eracle, disceso nell’Ade per un’ultima impresa. Ritornato inaspettatamente, l’eroe uccide il tiranno e, precipitato nella follia per volere della gelosa Era, riserva la stessa sorte all’amata moglie e ai giovani figli. Rinsavito, medita il suicidio da cui lo distoglie l’amico ateniese Teseo che, con umana pietà, gli indica la via della catarsi: “Un uomo nobile affronta rassegnato i colpi che gli infliggono gli dei”.
L’intera rappresentazione, ribaltando gli stilemi dell’impianto classico, è vivificata dall’interpretazione corale attraverso dialoghi gridati (dovendosi le voci femminili caricarsi di enfatiche e poderose tonalità), movimenti scenici esasperati e perfino grotteschi che nella sincopata ritmicità rimandano a quelli dei Pupi siciliani, ed enfatizzazione di caratteristiche fisiche che simboleggiano la forza virile come la chioma fluente di Eracle che l’eroe fa fluttuare minacciosamente con rapide rotazioni della testa.
Maria Giulia Colace è un Eracle fisicamente possente ma vocalmente fragile, specularmente contrapposta alla fisicità di Carlotta Viscovo nel ruolo di Teseo, Patricia Zanco è il tirannico Lico.
Artisticamente elaborati i costumi ideati da Vanessa Sannino che si ispirano ai riti della settimana santa in cui Megara è una Mater Dolorosa con una corona di lance, agli influssi della pittura fiamminga nelle cuffie che coprono la calvizie del coro, a suggestioni botticelliane nel manto ricamato di fiori di Megara (una magnifica Naike Anna Silipo) o nel tripudio di fiori delle gonne rovesciate delle prefiche che piangono le vittime.
Tribali e techno le danze disegnate dalla coreografa Manuela Lo Sicco sulle musiche di Serena Ganci.
Scritta da Euripide intorno al 420 a.C., questa tragedia si impone oggi con tutto l’impeto e la fragilità che possono esprimere il corpo e il cuore di una donna, perché, come affermava Calvino “un classico è un testo che non ha finito di dire quello che ha da dire”.