Se secondo Àlex Ollé da La Fura dels Baus, “il mondo bohémien della Parigi dell’800 non esiste più” la soluzione è una: trasportare La Bohème di Puccini in una qualsiasi realtà periferica di una metropoli contemporanea.
Soluzione estrema? Forse, ma del tutto coerente alla visione impressa da Ollé che ha saputo amalgamare in modo sapiente l’ilarità, la fame di vita, le schermaglie amorose all’insegna dell’energia dei giovani artisti di belle speranze, che finiscono per scontrarsi con l’ingresso nell’età adulta che arriva bruscamente con la morte di Mimì.
In scena al Teatro dell’Opera di Roma (fino al 24 giugno), la nuova Bohème (diversissima rispetto alla versione impressionista visto a Caracalla nel 2015 con la regia di Davide Livermore) realizzata in coproduzione con il Teatro Regio di Torino è stato accolta fra gli applausi del pubblico (e qualche sparuto e solitario fischio) per un grande cast (se ne alternano tre nel corso delle recite) di notevoli qualità vocali e interpretative, fra cui spiccano Anita Hartig, una delle migliori Mimì in circolazione che duetta soavemente con il Rodolfo di Giorgio Berrugi (già in coppia a Torino), la seducente Olga Kulchynska che interpreta Musetta che irretisce il Marcello di Massimo Cavalletti.
Non c’è nulla di tradizionale in un allestimento di impatto visivo non indifferente (con le scene di Alfons Flores, illuminate da Urs Schönebaum) che proietta subito il pubblico come spettatore negli interni di una sorta di casa delle bambole moderna costruita con tubi metallici e un pullulare di condizionatori in ogni appartamento di periferia che si rispetti che trasforma il Caffè Momus in una sorta di locale che entra in scena come un vagone mobile.
Restano l’energia, la vitalità, la baldanza in quella che è “l’opera delle piccole cose” che viene provocatoriamente, ma coerentemente arricchita da figure che popolano le periferie moderne, dai barboni, alle prostitute ai trans. Eccessivo? Forse sì per i tradizionalisti, ma non per un pubblico che riesce ad apprezzare l’idea di calare una storia di formazione nella realtà contemporanea.
Qualcosa tende inevitabilmente a stridere nella versione moderna rispetto al libretto (con la cuffietta rosa di Mimì che si trasforma), ma Ollé è ricco di idee, come nella travolgente scena di seduzione di Musetta che riconquista Marcello e non manca neppure l’ultimo colpo di teatro con la tisi di Mimì rimpiazzata da un moderno cancro che la divora fino alla morte nonostante la chemioterapia in una toccante scena finale.
E poi c’è la musica, incantevole e travolgente, qui la corretta direzione dell’ungherese Henrik Nánási (debuttante all’Opera e che tornerà con Il flauto magico in ottobre e che si alterna alla direzione con Pietro Rizzo) attento a bilanciare alla leggerezza la drammaticità. Tre cast in replica fino al 24 giorno, info su operaroma.it.